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In edicola il nuovo numero de LA CIVETTA DI MINERVA!
Ecco la locandina…

- MARIA LUCIA RICCIOLI
- Mercoledì, 21 Novembre 2018 08:39
La scrittrice Maria Attanasio, che ha rivangato in un libro la figura di Rosalia Montmasson: “L’ho scoperto per caso. Credevo fossero tutti maschi”
La Civetta di Minerva, novembre 2018
“La Civetta di Minerva” ha incontrato per voi Maria Attanasio, autrice per i tipi di Sellerio editore del romanzo “La ragazza di Marsiglia”. Il romanzo, vincitore del Premio Maria Messina, del Premio I Quattro Elementi, del Premio Manzoni per il romanzo storico, del Premio Internazionale Città di Como e del Premio Basilicata 2018, è imperniato sull’unica donna che prese parte alla spedizione dei Mille, Rosalia Montmasson.
Non è nuovo l’interesse della Attanasio per le microstorie, per le storie di personaggi rimasti nascosti nelle pieghe della Storia più grande che è come un grande arazzo di cui si notano però spesso solo i grandi nomi, quando invece uomini e più di sovente donne come la Montmasson restano in ombra: in “Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile” (1994), nelle “Piccole cronache di un secolo” (1997, con Domenico Amoroso), in “Di Concetta e le sue donne” (1999) e ne “Il falsario di Caltagirone” (2007), (per non parlare dell’attualissima distopia de “Il condominio di Via della Notte” (2013) – emergono volti e vicende di un passato più o meno remoto, di una Sicilia terra di contrasto fra truvature poetiche e ferocie.
La scrittura della Attanasio, mai compiaciuta ma sorvegliatissima, lucida nell’analisi di fatti e documenti, attenta alla ricostruzione degli avvenimenti nel rispetto assoluto del dato storico interpretato alla luce del presente e delle sue contraddizioni, ne “La ragazza di Marsiglia” dipana la vicenda di una donna che viene ricordata tutt’al più come di Francesco Crispi, figura cruciale del nostro Risorgimento e che in particolare giocò un ruolo importante per l’elevazione di Siracusa a capovalle nel 1865: in via XX settembre, il 21 ottobre del 1927, in piena età fascista quindi, venne posta una lapide che ricorda il “cospiratore profugo /incitatore apostolo” (per l’immagine rimandiamo al sito http://www.antoniorandazzo.it).
Il Risorgimento delle donne (pensiamo ad esempio al lavoro di Elena Doni) ci offre una visione in controluce della formazione dell’Italia, spesso in controtendenza rispetto alla memoria che ci restituiscono epigrafi, targhe, vie, piazze con date luoghi eventi e nomi che dimenticano l’apporto femminile alla storia contemporanea e non del nostro paese. Ma passiamo la parola a Maria Attanasio, che ha ridato voce a Rosalia Montmasson.
Come mai hai deciso di occuparti di questa figura?
L’ho incontrata per caso, in un pomeriggio di noia e depressi pensieri dell’autunno del 2010. Navigando in internet, mi ritrovai in un sito che riportava la notizia – vecchia di qualche anno – di una targa collocata sulla facciata di un palazzo fiorentino, dedicata a Rosalia Montmasson; l’unica donna presente tra i 1089 volontari della spedizione dei Mille, che in quel palazzo, al tempo di Firenze capitale, insieme al marito Francesco Crispi, era vissuta.
Sorpresa, stupore, incredulità. Ho studiato storia all’Università, l’ho insegnata al liceo, ma non avevo mai saputo di una donna tra i Mille partiti da Quarto: nessuna notizia né nei grossi tomi universitari, né nei libri di testo scelti per i miei alunni, né nell’aneddotica storica dei sussidiari delle elementari. Per me i Mille erano declinati solo al maschile. E non solo per me: nessuno a cui chiesi di Rosalie Montmasson ne sospettava l’esistenza. Un assurdo, inspiegabile, silenzio, su un fatto così singolare, che riguardava uno degli eventi fondativi dell’Unità d’Italia.
Da qui la mia ricerca – matta e disperatissima – tra archivi, biblioteche, internet, per infrangere quel silenzio, e restituire identità storica a questa donna coerente e libertaria; che, a differenza del marito – da repubblicano, per opportunismo politico, diventato monarchico – rimase fedele alle idee di Mazzini fino alla morte.
Un’identità, storica ed esistenziale, che però il potentissimo Crispi cercò totalmente di cancellare dopo l’annullamento del loro matrimonio – 25 anni di vita coniugale – ottenuto con la complicità di giudici e politici. Dopo il quale, di lei si perde ogni memoria.
Premio Manzoni è intitolato allo scrittore che seppe mescolare storia e invenzione donandoci, diciamo così, la ricetta del romanzo storico. Come “dosi” i due elementi nella tua scrittura? Quale futuro vedi oggi per questo genere letterario?
Più che mai necessario, oggi, il romanzo storico: per non dimenticare il nero, il buio, l’orrore che nel passato spesso è scritto… genocidi… campi di sterminio… xenofobia… E resistere alle serpeggianti tentazioni autoritarie di una storia contemporanea che alza muri contro esiliati e migranti, alimentando artatamente la paura dell’altro. Un bisogno espressivo, che, a mio parere, oggi molti scrittori fortemente sentono; non è un caso che quest’anno siano stati pubblicati tanti romanzi storici: quelli di Lia Levi, di Helena Janeczek, di Rosella Postorino, di Marco Balzano, e di tanti altri…
Ma chi, in Italia, scrive romanzi storici non può prescindere da Manzoni; a partire dalla rilettura della “Storia della colonna infame”: dal rapporto in essa tra documento e narrazione che Leonardo Sciascia con forza sottolineò, riportando all’attenzione di scrittori e lettori questo straordinario testo manzoniano; ma, per quanto mi riguarda, non si può prescindere nemmeno da Stendhal, Marguerite Yourcenar, e dalla variegata lezione del romanzo storico siciliano: da De Roberto, Sciascia, Consolo. Non c’è però una ricetta, un dosaggio espressivo unico tra storia e invenzione. Non solo tra i diversi scrittori, ma talvolta anche tra i diversi romanzi dello stesso scrittore: mi è accaduto, continua ad accadermi. Ne “La ragazza di Marsiglia” la presenza e la fedeltà al documento è fondamento ineludibile, struttura portante della finzione letteraria; assolutamente necessaria per restituire visibilità storica e voce a questa donna, nel cui vissuto storia ed esistenza, amore e utopia erano inscindibili.
La parola che narra convive in te con la parola poetica – ricordiamo ai nostri lettori le raccolte “Interni”, 1979; “Nero barocco nero”, 1985; “Eros e mente”, 1996; “Amnesia del movimento delle nuvole”, 2003. In che modo? Cosa hai in cantiere in questo momento?
Non convive, si alterna. Sono infatti una dissociata biscrittora: a volte poesia, a volte narrazione. Ma fondamentale, in tutta la mia produzione, è la lunga pratica di lettura e scrittura poetica, che mi porta a un’intransigente disciplina, a un forte controllo della parola. E a leggere la realtà dei fatti di una determinata epoca, di un determinato luogo, con una dimensione rappresentativa che – simultaneamente, liberamente – coniuga emozione e concetto, esistenza e mondo.

- MARIA LUCIA RICCIOLI
- Martedì, 06 Novembre 2018 11:18
Per il 150° dalla morte di Rossini e nel Festiva corale. Nella nuova stagione la compagine impegnata nell’attività concertistica e nell’animazione liturgica
La Civetta di Minerva, novembre 2018
È ricominciata a pieno ritmo la nuova stagione concertistica del coro polifonico europeo “Giuseppe De Cicco”, realtà musicale ormai consolidata della provincia di Siracusa diretta dal maestro Maria Carmela De Cicco.
In occasione del centocinquantesimo anniversario della morte di Gioachino Rossini, il coro eseguirà, presso il Tempio di San Giacomo di Piazza Rossini a Bologna, musiche di Monteverdi, F. Mendelssohn, M. Duruflé, E. Elgar, Lotti, De Victoria, Telemann, Schütz, Rheinberger, Bruckner, Reger, compositori di musica corale dal Barocco al Romanticismo, omaggiando Rossini con le pagine più belle dello “Stabat Mater” e della “Petite Messe Solennelle”, insieme al Coro Euridice di Bologna, diretto da Maurizio Guernieri e Pier Paolo Scattolin.
Oltre che per il concerto, il coro sarà impegnato nell’animazione della liturgia. Il Festival corale internazionale Città di Bologna, giunto all’undicesima edizione, nell’ambito deIla quale sono inserite le esibizioni del coro De Cicco, si deve anche alla collaborazione con il San Giacomo Festival.
Il coro polifonico De Cicco si conferma dunque come compagine impegnata sia nell’attività concertistica – il 9 febbraio 2019 la corale si esibirà al Teatro Don Bosco di Ragusa in un concerto inserito nel cartellone dell’associazione “Melodica” – che nell’animazione liturgica, oltre che nella formazione dei coristi e dei direttori di coro con maestri di chiara fama come Pierpaolo Scattolin, Angela Troilo e Giovanni Acciai: tra le iniziative recenti che hanno visto coinvolto il coro ricordiamo “1000 voci per ricominciare” per la raccolta fondi in favore del Teatro di Amatrice, il ventennale del coro festeggiato con l’esecuzione della “Petite Messe Solennelle” di Gioachino Rossini a Carlentini (SR), Ragusa e la Chiesa di Santa Lucia alla Badia di Siracusa, raduni corali come “O Nata Lux”, la celebrazione del Giorno della Memoria, il gemellaggio con il coro di Agira, il festival “Musica sotto le stelle”, il bicentenario di Baha’u’llah, il gemellaggio con la città di Würtzburg e il sesto festival nazionale di musica sacra mariana di Bagheria (PA).
- MARIA LUCIA RICCIOLI
- Domenica, 04 Novembre 2018 08:02
L’evento nel 140° anniversario della sua morte. Sempre più artisti e letterati ne scrivono in saggi e ricerche
La Civetta di Minerva, novembre 2018
Il 6 gennaio 1878 moriva, a soli trentasei anni, tre mesi e sei giorni, la poetessa e patriota netina Mariannina Coffa. Sono quindi trascorsi esattamente centoquarant’anni dalla scomparsa di una donna ed artista la cui fama volò oltre il Val di Noto che l’aveva vista fiorire e nel corso di questo lasso di tempo non sono mancati gli studiosi e gli estimatori della biografia e dell’opera della poetessa, soprannominata “Saffo netina” e “Capinera di Noto” per l’apparentarsi del suo destino a quello della poetessa di Mitilene e dell’eroina di Verga: tra i più recenti cultori di Mariannina Coffa non possiamo non citare Marinella Fiume e Biagio Iacono (“Sibilla arcana”, “Sguardi plurali”, “Voglio il mio cielo” i lavori principali, frutto di infaticabili studi sulle carte d’archivio e del lavorìo critico di appassionati indagatori delle carte coffiane), oltre ad Angelo Fortuna (ricordiamo il suo volume su “Anonimo 1905”) e a Stefano Vaccaro (ricordiamo il suo recente “Silfide, maga e sirena – L’ideale femminile nella letteratura italiana dell’Ottocento”), giovani appassionati di letteratura che versificano nel nome della Coffa come Giuseppe Puzzo, docenti universitari del calibro di Nicolò Mineo, Carlo Muratori (che ha musicato un sonetto della Coffa inserendo il brano nel CD “Sale” e portandolo in tournée in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia) e potremmo continuare.
A celebrare questo anniversario è stata però non la città di Noto o Ragusa (dove la poetessa netina visse dal 1860 al 1876), ma Palermo, capitale della cultura 2018, con il progetto “Mariannina Coffa 2.0 – Concorso internazionale di poesia, letteratura ed arti visive – Resurrectio, ideato e realizzato dall’Associazione culturale “Suggestioni mediterranee” (presieduta da M. Stella Pucci di Benisichi) in collaborazione con l’Associazione Culturale “PROGETTO Zyz – La Palermo Splendente”, con lo scopo di onorare la memoria della poetessa “maledetta”. Gianluca Pipitò è il responsabile del premio, articolato in area poetico-letteraria, arti visive e ricerca storica, che prevede anche la pubblicazione di un’antologia digitale.
Fino al 6 novembre sarà inoltre visitabile la mostra dedicata alla poetessa presso il Real Albergo dei Poveri: inaugurata il 6 ottobre 2018 (orari: dalle ore 10 alle 17, da martedì a domenica), vede coinvolti il Comando regionale della Guardia di Finanza, l’Associazione culturale storia e militaria di Palermo, l’Ente di formazione professionale CIRPE e i vincitori della sezione pittura e fotografia del concorso “Mariannina Coffa Caruso 2.0 resurrection”, che ha visto premiati presso la Sala Pitrè della Società siciliana di Storia patria anche i poeti e gli scrittori finalisti del concorso letterario.
Oltre ad iniziative come queste e ai convegni e conferenze dedicati alla poetessa, sarebbe auspicabile un’edizione critica delle opere di Mariannina Coffa, realizzata con la stessa acribia con cui si è lavorato all’epistolario Coffa-Mauceri (ricordiamo che Ascenzio Mauceri, drammaturgo e musicista, primo preside del Liceo classico di Noto, fu il primo sfortunato e romanticamente indagato amore della poetessa) e alle lettere della Nostra al precettore e ad altri corrispondenti come parenti ed amici. Altri campi d’indagine sulla Coffa sono naturalmente ancora aperti: il suo rapporto con la Massoneria e con la medicina omeopatica, le sue collaborazioni anche sotto pseudonimo con vari periodici, ma anche e diremmo soprattutto il mistero delle carte scomparse dopo la sua morte, che se risolto potrebbe gettare una luce nuova sull’ultima stagione poetica della poetessa e forse anche sulla rottura del fidanzamento con Mauceri, prodromo dell’infelice matrimonio di Mariannina Coffa con Giorgio Morana.
Il 2019 potrebbe essere l’occasione per ripensare alle vicende risorgimentali, che si sono intrecciate alla biografia e all’opera di una letterata che merita di essere conosciuta e apprezzata anche al di fuori dell’ambito celebrativo e locale o accademico.
“Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”: non c’è forse citazione migliore di quella tratta da Marguerite Yourcenar per invitare i nostri lettori a (ri)scoprire il valore del ruolo delle biblioteche per la nostra vita personale e comunitaria.
- MARIA LUCIA RICCIOLI
- Martedì, 15 Maggio 2018 10:42
Cappè, Politi e Astore presentano “Il mago tre P” di Moscon. Neil Gaiman: “Una città non è una città senza una biblioteca, anche se pretende di esserlo”
La Civetta di Minerva, 27 aprile 2018
I futuristi sognavano di dar fuoco alle biblioteche, viste come sepolcreti di libri morti. Magari, se oggi partecipassero alle iniziative che rendono la biblioteca cuore di un quartiere, punto di riferimento e d’incontro, luogo dove si sperimenta l’inclusione, istituzione che si muove per andare incontro ai lettori, forse cambierebbero idea.
Nello scorso numero abbiamo parlato di MediaLibraryOnLine, adesso disponibile in biblioteca: è possibile prendere in prestito, direttamente da casa, due e-book al mese tra 30.000 nuovi titoli e 800.000 testi classici, oltre che consultare gratuitamente l’archivio del Corriere della Sera, dal 1876 al 2016; in occasione della Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, presso la Biblioteca comunale di Canicattini Bagni (SR) intitolata a Giuseppe Agnello, si è svolto il Canicattini Bagni BookFest, che ha salutato l’inverno e festeggiato con la primavera il rifiorire delle più originali, diffuse e coinvolgenti occasioni di lettura, legate al Maggio dei Libri che torna con la sua sfida, leggere, e leggere ovunque: il 22 e 23 aprile scorsi, in collaborazione dell’Associazione La Tana dei Goblin Siracusa, Titò di Cettina Marziano e VerbaVolant edizioni, casa editrice siracusana specializzata nella letteratura per bambini e ragazzi, la biblioteca ha accolto attività di lettura e di gioco, coinvolgendo bambini e ragazzi di scuola elementare e media.
Altro appuntamento interessante sarà quello di “Leggimi una storia – Associazione Culturale”: il 2 maggio prossimo verrà approfondita la figura di Giuseppe Pitrè, oltre al tema dell’ “accessibilità” dei contenuti letterari a lettori con difficoltà di lettura insieme alla cooperativa Phronesis: presso il X Istituto comprensivo “Emanuele Giaracà” di via Gela a Siracusa, la dottoressa Paola Cappè (che non solo dirige la Biblioteca di Canicattini Bagni ma è anche responsabile per la regione Sicilia dell’AIB, l’associazione che riunisce e coordina le biblioteche italiane), la dottoressa Viviana Politi e la dottoressa Luana Astorepresenteranno “Il mago tre P” di Lilith Moscon, illustrato da Marta Pantaleo.
“La cultura è un bene primario come l’acqua; i teatri, le biblioteche e i cinema sono come tanti acquedotti”, diceva Claudio Abbado. Ci permettiamo di ricordarlo ai nostri amministratori, perché – e qui citiamo Neil Gaiman – “Una città non è una città senza una biblioteca. Magari pretende di chiamarsi città lo stesso, ma se non ha una biblioteca sa bene di non poter ingannare nessuno”.

- MARIA LUCIA RICCIOLI
- Venerdì, 27 Aprile 2018 16:25
“In ogni pagina del romanzo c’è la storia dell’italiano”. Intervista all’avolese Jean Paul Manganaro, uno dei più importanti traduttori dal e in francese
La Civetta di Minerva, 13 aprile 2018
A coronamento del laboratorio di lettura organizzato dalla Biblioteca comunale di Siracusa sul romanzo“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, il 10 aprile scorso si è tenuto l’incontro, moderato sapientemente da Salvo Gennuso, con uno dei più importanti traduttori dal e in lingua francese, Jean-Paul Manganaro, una vera e propria autorità nel proprio campo, che ha affrontato l’improba ma grata fatica – lunga e amorosa è la frequentazione di Gadda da parte del traduttore, che è nativo di Bordeaux, vive a Parigi ma è di origini avolesi – di trasporre il gliuòmmero, il pasticcio, lo strano oggetto che è quest’opera affascinante e impervia come una scalata.
Manganaro, nel corso di quella che è stata quasi una conversazione più che una conferenza, ha spaziato con ironia e competenza dall’infanzia difficile dell’autore, orfano di padre e lacerato da un irrisolto edipico rapporto con la madre, alla scrittura di Gadda, la cui biografia – apparentemente scarna e priva di fatti significativi – confluisce tutta nella scrittura: l’élan vitale di Gadda fluisce tutto nell’opera – basterebbe pensare a “La cognizione del dolore”.
Manganaro ha quindi narrato la parabola dell’ingegnere elettrotecnico “prestato” alla scrittura, che si nutrì di Leibniz e Spinoza, filosofi fondamentali per comprendere l’universo gaddiano, un universo policentrico, plurilinguistico e polifonico, dallo stile diremmo jazzato e cubista, se l’immaginifico barocco scrittore non sfuggisse a qualsiasi tentativo di sistematizzazione; dai saggi alle novelle, veri e propri frammenti di esistenza, alla pubblicazione di alcuni “tratti” ovvero capitoli, sezioni del romanzo su rivista – tra le più importanti dell’epoca ricordiamo per tutte “Solaria” e “Letteratura” –, Gadda ridefinisce il modello letterario ereditato dalla tradizione.
Per comprendere Gadda, Manganaro si serve delle spie linguistiche: le descrizioni, le digressioni che danno stoffa al ragionamento – pensiamo ai cieli e alle nuvole gaddiane –, l’utilizzo peculiare della punteggiatura, materializzano l’idea di Gadda – molto pirandelliana – secondo il quale la realtà della verità non esiste e anche se esistesse non potrebbe essere trovata: alla Deleuze, la soluzione potrebbe essere uno dei possibili che non si è attuato; un fatto non ha una sola causale ma tante causali; tutto è effetto e tutto è causa.Realtà e verità sono dunque punti di interrogazione… i puntini di sospensione rappresentano graficamente il non si sa, i chissà. Una frase che procedesse per virgole e punti e virgola passerebbe dalle tesi e antitesi ad una sintesi (secondo la logica classica), conferendo al discorso un ordine gerarchico che invece Gadda sovverte tramite l’uso quasi matematico dei due punti, che pongono tutte le situazioni sullo stesso piano di equivalenza e corresponsabilità. E qui il sovvertimento diventa anche politico: noto è il disprezzo di Gadda per il fascismo – sublime il grottesco di “Eros e Priapo” – e nel romanzo Polizia e Carabinieri, tra l’altro intralciandosi a vicenda, nonostante la dichiarata e muscolare intransigenza non riusciranno a dipanare l’imbroglio, impotenti come sono a dirimere il pasticciaccio, il gomitolo intrecciato del delitto.
Tradurre è trans-ducere, trasportare. Io la immagino come un barcaiolo intento a trasportare della merce preziosa da una riva all’altra – le lingue di partenza e arrivo –: qualcosa è andato perduto in acqua?
Il carico è arrivato tutto. Ho riprodotto assonanze, dissonanze, ritmi, la sinfonia di questo romanzo il cui stile mette il lettore sull’attenti: non permette distrazioni e per tradurlo, per cucire le parole punto per punto a maglia fina, per non perdere il filo, la musicalità della scrittura, ho impiegato dodici ore al giorno per un anno senza fare altro. Forse qualcosa si sciupa ma il carico è arrivato per intero. Non è il primo libro di Gadda che traduco e comunque questa traduzione arriva dopo anni di lavoro. L’amore per Gadda per me è viscerale, inspiegabile: prende qui – sorride – alle trippe. Rileggo “Quer pasticciaccio…” ogni due anni circa e ricordo la prima volta: non riuscivo a credere ai miei occhi. Tutta la storia della lingua italiana si ritrova in ogni pagina, in ogni riga del libro.
Oggi purtroppo la lingua – anche quella letteraria – sta subendo una sorta di normalizzazione che la fa somigliare non ad un organismo vivente e “multistrato” ma che la rende una lingua “Standa” più che standard, piatta e involuta, esattamente il contrario del lussureggiante e ben biodiversificato linguaggio gaddiano. Come ha reso la polifonia dialettale del romanzo, l’imbroglio linguistico oltre che quello della trama? Il napoletano, il romanesco, il molisano di Ingravallo e dei personaggi gaddiani… come sono stati “traghettati” in francese?
In Italia i dialetti sono ancora parlati, intesi, capiti: sono la vita quotidiana che entra nel discorso, anche del parlante colto. In Francia ci sono degli slang, l’argot, ma non dialetti: ho tradotto in un francese “strano” ma sempre comprensibile, come all’orecchio risulta strana ma comunque viene riconosciuta come italiana la lingua di Gadda (ricordiamo che all’epoca il cinema italiano, arte e industria insieme, supportava il napoletano ma soprattutto il romanesco come dialetto neorealistico per eccellenza); nel frasato diretto l’autore usa appunto i dialetti (che io rendo con un francese sviato o meglio traviato, con la sonorizzazione della dentale o una diversa tonalizzazione, scambiando per esempio T e D: le agglutinazioni sonore sono aggiunte di suono ma non di senso, le elisioni sono violente), mentre nel discorso indiretto utilizza dei ricami con il dialetto per non perdere la mescidanza tra le lingue. In questo mi ha facilitato l’aver lavorato a “Le baruffe chiozzotte” di Goldoni – anche in Gadda troviamo il legame con Venezia dato dalla contessa, ad esempio.
La traduzione è letterale oppure è più un lavoro di interpretazione? Che rapporto c’è tra un autore e chi lo traduce?
Interpretare vuol dire non essere stati capaci di tradurre, aggirare l’ostacolo senza trovare l’espressione, la parola precisa, esatta. La scrittura è il gancio, la materia e il terreno comune, il momento di confronto tra autore e traduttore che non può né deve essere traditore. Bisogna cogliere i soffi, i respiri, le pulsazioni di ciò che si traduce, sordi alle suggestioni, ingannevoli come sirene, dell’interpretazione.
E qui Manganaro senza dirlo credo che accenni anche ad una misura più alta del proprio mestiere, che è quella etica.
- MARIA LUCIA RICCIOLI
- Giovedì, 26 Aprile 2018 11:25
La Civetta di Minerva, 13 aprile 2018
Forse l’Ottocento è stato il secolo che ci ha donato le più fulgide rappresentazioni femminili – connotate sia positivamente che in una valenza negativa –: pensiamo a Madame Bovary, ad Anna Karenina, alle protagoniste dei romanzi delle sorelle Brönte e prima ancora alle smaglianti invenzioni del genio di Jane Austen, per citare solamente i primi nomi in punta di penna.
Possiamo dire che l’Ottocento porta alla ribalta e forse esaspera non solo la femminilità, ma anche e soprattutto il conflitto tra i sessi e l’irriducibilità della loro complementarietà / differenza, proprio in un’epoca in cui tante artiste oltre che tante donne comuni pretendevano un proprio posto in una società mutevole e attraversata da cambiamenti rivoluzionari in campo politico, economico e sociale.
Sirene, incantatrici, maliarde, dame eleganti, virago, civette narcise da una parte – il cliché della femme fatale declinato in ogni possibile sfaccettatura – contro Nedda e gli angeli del focolare dall’altra: questo il catalogo dei destini delle donne rappresentate nella letteratura del secondo Ottocento, che riflette da una parte e dall’altra precorre i mutamenti socio-culturali di un’epoca convulsa, che segue a quella risorgimentale e si proietta verso il ventesimo secolo.
Dell’argomento si è recentemente occupato il giovane studioso ragusano Stefano Vaccaro nel suo saggio, fresco di stampa per i tipi de Il Convivio Editore, intitolato appunto “Silfide, maga e sirena – L’ideale femminile nella letteratura italiana dell’Ottocento”, presentato il 6 aprile presso la sala del fondo antico della Biblioteca diocesana di Ragusa – intitolata a Monsignor Pennisi e diretta da don Giuseppe Di Corrado – nell’ambito della manifestazione LIBeRI A RAGUSA (di cui l’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Ragusa è media partner; la prefazione, di cui vi abbiamo offerto qualche stralcio all’inizio del pezzo, è della docente e scrittrice Maria Lucia Riccioli); con l’autore l’eminente prof.ssa Margherita Bonomo (Università degli Studi di Catania), che tra l’altro si è occupata a lungo di carteggi femminili ottocenteschi.
“La Civetta di Minerva” lo ha intervistato per voi.
Com’è nato in te l’interesse verso la letteratura dell’Ottocento?
Nell’immaginario fanciullesco che già dalla più tenera età mi si palesava innanzi, l’Ottocento prendeva sempre più la forma di una lunga galleria di immagini gotiche e spettrali, un pentagramma vivificato da figure grottesche, al limite del picaresco, all’interno del quale personaggi e trame considerate scriteriate o insolite avevano liceità non solo di essere pensate ma anche narrate. Il fascino esercitato dal “diverso” ha fatto sì che sentissi la letteratura del XIX secolo molto vicina a me scegliendola difatti come oggetto della mia ricerca. Gli anni di studio mi hanno poi restituito un secolo molto complesso letterariamente e stratificato culturalmente, attraversato da numerose correnti e diversi “modi di sentire”; un viaggio affascinante che dura tutt’oggi e che dall’analisi del Verismo mi ha condotto allo studio del Simbolismo, senza tralasciare l’approfondimento per “movimenti” quali il Naturalismo, il Romanticismo e il Decadentismo. Ciò che mi preme coniugare è il rigore del metodo critico-scientifico alla curiosità che mi spinse ad indagare la letteratura italiana anni fa.
Silfide, maga e sirena… spiegaci come mai l’eterno femminino assume questi volti. E poi… ritieni queste “classificazioni” ancora attuali? Quali personificazioni o maschere potrebbero raffigurare le donne odierne?
Silfide, maga e sirena è un trinomio che ho preso in prestito da Verga (Una peccatrice, 1865) e che ben sintetizza la visione che si ebbe della donna per tutto il XIX secolo. L’Ottocento è di per sé il secolo delle rivoluzioni in tutti i campi dell’esperienza umana, pensiamo a quello politico con le rivoluzioni del ‘48 prima e le lotte risorgimentali poi, e ancora agli scompaginamenti sociali portati dalla meccanizzazione del lavoro e dell’avvento della borghesia, e non da ultimo ai risvolti culturali dovuti alla presenza, per la prima volta massiva e consapevole, della figura femminile anche in ambito culturale la quale, minando un sistema maschilista e patriarcale, cominciò a ritagliarsi, con fatica, spazi del sapere prima preclusi, facendo sentire la propria voce attraverso la pubblicazione di romanzi, feuillettons, articoli e pamphlets. La determinazione e la tenacia con le quali le intellettuali dell’Ottocento si batterono affinché i propri diritti d’espressione venissero riconosciuti dovette apparire del tutto nuova e allarmante per gli uomini del tempo che per questo, non appare sbagliato pensare, caricano la donna di aggettivi non sempre lusinghieri, descrivendola come una maliarda grifagna o un angelo tentatore.
Già a cominciare dal Novecento la figura muliebre non è più, o non è solo, silfide, maga e sirena ma acquista caratteri nuovi anche in vista di un impegno civile più vistoso che non rifugge connotati politici (pensiamo alle battaglie del ‘68). Oggi il polinomio verghiano con il quale il Siciliano descriveva la sua peccatrice appare svuotato di senso, rimane però, a mio avviso, una dicotomia “ottocentesca” di fondo per cui l’accostamento angelo-demone ha nuove possibili interpretazioni: se da un lato, in alcuni contesti e società, la donna può dirsi emancipata ricoprendo prestigiosi incarichi istituzionali e posizioni di rilievo nel campo della scienza, delle arti, dell’imprenditoria, della moda e delle telecomunicazioni, dall’altro lato la stessa donna, e il suo corpo, è tristemente vittima di attenzioni “superomistiche” fin troppo invasive, violente e incontrollate, finanche manesche, sanguinose e mortali.
Hai in cantiere altri lavori? Come vedi lo “stato dell’arte” della critica? Quali altri campi sarebbero da esplorare e quali vorresti affrontare tu?
Dopo aver reso nota, attraverso quest’ultima raccolta di saggi da poco edita, alle voci e ai pensieri degli intellettuali dell’Ottocento e al loro modo di pensare ed interpretare la donna, sto lavorando affinché abbia voce la controparte femminile. L’impegno muliebre difatti ha coinciso con volti e figure ben definite il cui studio spero riesca a sottrarle dall’oblio a cui per troppo tempo e ingiustamente sono state condannate. La mia ricerca si concentra innanzitutto sulle letterate siciliane che operarono nell’Isola nel medio e tardo Ottocento, dalle più note Giuseppina Turrisi Colonna (1822-1848) e Mariannina Coffa (1841-1878) alle misconosciute palermitane Concettina Ramondetta Fileti (1829-1900), Rosa Muzio Salvo (1815-1866), Lauretta Li Greci (1833-1849) e alla messinese Letteria Montoro (1825-1893): un’intera generazione di autrici che con forza e coraggio si batté affinché potesse esprimere le proprie idee contravvenendo spesso ai dettami imposti dalla società, rischiando cioè l’esclusione familiare, la sofferenza della solitudine e la stessa reputazione. Altro campo d’indagine è ancora la poesia novecentesca con particolare attenzione a quel segmento letterario al femminile che operò un nuovo linguaggio lirico italiano: Antonia Pozzi (1912-1938), Amelia Rosselli (1930-1996), Nadia Campana (1954-1985) e Catrina Saviane (1962 -1991).

Incontro letterario-musicale al cine teatro Italia di Sortino, organizzato dal Comune in collaborazione con la Biblioteca Comunale ”Andrea Gurciullo” e il Primo istituto comprensivo “G.M. Columba” di Sortino
La Civetta di Minerva, 2 marzo 2018
“Persuasione” e “Northanger Abbey”(1818) sono due romanzi postumi: mentre il secondo era già terminato nel 1803, il primo è in realtà l’ultima opera completa scritta poco prima dell’aggravarsi della malattia di Addison che ne porterà alla morte l’autrice il 18 luglio del 1817: quindi, quest’anno ricorrono duecento anni esatti dalla pubblicazione di due dei sei romanzi canonici – gli altri sono naturalmente “Orgoglio e pregiudizio”, “Ragione e sentimento”, “Emma” e “Mansfield Park” – di Jane Austen, il bicentenario della cui scomparsa è stato celebrato nel 2017.
L’autrice inglese, letta, parodiata, reinventata, frequentata dal teatro e dal cinema (ricordiamo per tutti “Il club di Jane Austen”), gode di un successo imperituro: Catherine, Anne, Elizabeth, Elinor e Marianne, Emma e Fanny, le sue eroine, sono modelli dell’eterno femminino in lotta per la propria affermazione nonostante l’epoca Regency e la nostra sembrino agli antipodi. La Austen, ironica e pungente, genio universale che è sbagliato imbrigliare nell’assurda categoria dei “romanzi per signorine” sebbene le apparenze mostrino il contrario – gli eventi storici non sembrano toccare i suoi romanzi, che ruotano intorno a balli, intrighi matrimoniali, pettegolezzi, concerti casalinghi, picnic –, ritrae con la sua penna acuta la piccola nobiltà di campagna e la borghesia che tenta la scalata sociale: nulla sfugge alla sua penna acuta che lavora su “tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna” come un incisore, come un monaco alle prese con le miniature di una pergamena; la Austen paragonava infatti il proprio lavoro ad un “pezzettino di avorio, largo due pollici”, modellato “col più fine dei pennelli, in modo da produrre il minimo degli effetti col massimo dello sforzo”: nonostante una biografia apparentemente priva di avvenimenti rimarchevoli, la profondità della riflessione e la vastità dell’immaginazione – sense and sensibility, razionalismo illuminista e romanticismo ottocentesco, che la Austen comunque aborriva e parodiava nei suoi eccessi lacrimevoli e gotici – l’hanno resa universalmente nota e apprezzata sia dai lettori che da studiosi e critici.
Lo scorso anno, la pianista Donatella Motta e la docente e scrittrice Maria Lucia Riccioli, qui in veste di voce narrante, si erano rese protagoniste di un aperitivo letterario a tema Jane Austen organizzato dalla dottoressa Paola Cappè, impegnata nel diffondere l’amore per i libri e la lettura con varie iniziative che ruotano intorno alla biblioteca Agnello di Canicattini Bagni (SR); quest’anno, venerdì 2 marzo scorso il recital è stato riproposto all’interno dell’incontro letterario-musicale “Vi presento Jane Austen” che si è tenuto presso il CineTeatro Italia a Sortino. L’evento è organizzato dal Comune di Sortino in collaborazione con la Biblioteca Comunale ”Andrea Gurciullo” e il Primo istituto comprensivo “G.M. Columba” di Sortino: le classi seconde della scuola secondaria di primo grado – da rimarcare la sensibilità della docente Lisa Manca, oltre che l’impegno della dottoressa Maria Sequenzia, che ha fortemente voluto il progetto – hanno presentato un lavoro di ricerca sulla scrittrice che si è concluso con il recital del duo siracusano.