Un grazie anche ad Enrico Guida per la sua opera nascosta ma preziosa.
Ed ecco copertina, anteprima e primissima recensione… grazie agli amici di Indie Shake & Co…
Autore: Marinella Cimarelli, Franco Duranti, Maria Lucia Riccioli, Eva Simonetti, Alessandra Montali, Lorenzo Spurio, Stefano Vignaroli
Editore: Amici di Jesi
Sinossi: Accade così: un giorno un gruppo di amici scrittori si ritrova tra le pagine di Facebook e si incomincia a riflettere su quanto è bella e forte questa città, con le sue contraddizioni e le sue vie che si intrecciano tra medioevo e modernità, l’eleganza dei monumenti e la luce cruda che scava anfratti bui nelle stazioni.
E quanto sarebbe bello scrivere un libro tutti insieme e raccontare questa città: dall’infanzia alla maturità, in prosa, teatro e poesia, in italiano e in dialetto jesino. Dal desiderio alla scrittura il passo è breve e in pochi mesi nasce questo libro, frutto di un lavoro collettivo pieno di passione e di amore.
Ci sono tante voci che cantano e parlano diversamente, dall’elegia al dolceamaro del ricordo, dal racconto storico fino alla Jesi hardboiled delle notti di criminali e commissari di polizia.
Più che un ritratto, un atto di amore, che unirà scrittori e lettori nell’esclamare: «Jesi: che capolavoro!»
Anteprima
IL DIARIO TRA GLI ALBERI
di Eva Simonetti
Anna quel giorno aveva una coda alta, che raccoglieva i capelli color carota arricciati sulle punte. Io, invece, come al solito, avevo una lunga treccia che ricadeva sulla spalla sinistra. Avevamo otto anni. Era caldo, quel giorno, me lo ricordo bene, c’era il sole, uno dei primi soli primaverili, uno dei primi tra quelli che ti senti veramente sulla pelle, che scottano, che scaldano l’asfalto. Fortunatamente, lì al campetto del Liceo c’erano parecchi alberi dall’ombra ospitale. Io e Anna eravamo due dei tanti bambini che scorrazzavano per il campetto, con il grembiule rosa a quadretti allacciato in fretta o addirittura aperto. Probabilmente saranno state le due di pomeriggio, era maggio, la scuola stava per finire e il dopo-mensa lo trascorrevamo lì, nel campetto del Liceo Scientifico che era anche il giardino della nostra scuola elementare.
Le maestre si sedevano sul muretto, chiacchieravano tra loro o con noi.
C’era un gruppo di maschi che aveva improvvisato una partita a calcetto usando della carta stagnola appallottolata al posto del pallone. Alcune mie compagne erano sedute sul prato, quasi in cerchio, e stavano intrecciando catenine di margherite.
Io e Anna giocavamo a nascondino. Tommy stava contando appoggiato al tronco di un albero, con il viso tra le braccia incrociate,. Presi Anna per un braccio e la trascinai in fretta con me, in cerca di un nascondiglio strategico, dal quale saremmo potute sgusciare fuori in fretta, ma allo stesso tempo sicuro.
Scendemmo dai gradoni di cemento, giù nella pista di atletica, poi attraversammo il campetto da pallavolo e ci accucciammo dietro il muro con il quale finiva la gradinata dei piccoli spalti.
«È lontanissimo qui…» sussurrò Anna.
«Appunto.»
«No, Emma, come facciamo a correre fino a là? Ci fa tana…» «Ma tanto prima cercherà lì vicino…» sussurrai stando attenta a non alzare la testa.
«È, quindi…?»
«Sssh, i passi.» dissi mettendomi l’indice davanti alle labbra. Anna continuò a guardarmi con aria di disapprovazione, ma fece silenzio e cercò di nascondersi meglio raggomitolandosi su se stessa. Io mi sporsi un poco all’esterno, per vedere chi stava camminando nella pista da atletica, vicino a noi.
«È qui, è qui.» sibilai ritraendomi all’istante ma senza distogliere lo sguardo.
«Anna, è qui.» continuai un po’agitata.
Aspettai che i passi si allontanassero, poi mi girai un po’indispettita verso la mia compagna, che non dava segni di agitazione. Anna, infatti, aveva lo sguardo fisso su un punto, poco distante da noi, sul piccolo spiazzo d’erba prima della rete che limitava il campetto e sotto alla quale c’era il cortile del Liceo, incastonato come una pietra ad un livello più basso rispetto a noi. Da lì, si poteva guardare dentro le aule che si trovavano al seminterrato della grossa scuola, per noi ancora così misteriosa.
«Che c’è, Anna?»
«O mamma, guarda!» sussurrò indicando un oggetto poco distante. All’inizio non riuscii a capire di cosa si trattasse.
Mi avvicinai a lei, sempre mantenendo bassissimo il tono di voce sebbene il gioco stesse continuando lontano da noi.
«Lo prendo?» mi chiese voltandosi a guardarmi.
«No…» dissi pensierosa inclinando la testa per guardarlo da un’altra angolazione.
«No?»
«Boh non so… se esplode?»
«Dai lo prendo.» mi rispose con un velo di agitazione negli occhi e un sorrisetto sospetto sulle labbra.
«Toccalo con un bastone…» avanzai.
Intanto, il misterioso oggetto se ne stava fermo lì, incurante delle nostre incertezze. Lì fermo al sole come stava chissà da quanti giorni. Alla fine fummo vinte dalla curiosità e, con la sensazione di violare chissà quale legge che altro non era che quella materna del non raccogliere cose da terra se non sai cosa sono, avanzammo piano, accucciate sulle gambe, verso l’oggetto. Prima di toccarlo, lo osservammo ancora un istante. Sembrava un libricino, rotto, sgualcito, grosso non più di quei vangeli tascabili che ci avevano distribuito a catechismo. Lo presi io e tornammo al punto da cui eravamo partite, per poterlo osservare senza essere viste.
Non era un vangelo tascabile, però.
Era un diario di scuola. Il diario di un liceale, evidentemente, gettato fuori da una di quelle numerose finestre bianche, sputato dal quel pianeta strano che erano le superiori ed atterrato come un ufo nel nostro ben più ordinato pianeta, dove vigevano ancora chiare e semplici regole dettate dalla maestra e rispettate per il semplice fatto che la trasgressione non era neanche presa in considerazione.
Uno stralcio di quella che sarebbe stata la nostra vita dopo aver scavalcato la soglia dell’infanzia, piombato lì come un’anticipazione. Tutto ciò, suscitò in me e in Anna un’immediata euforia, seguita da un moto di curiosità.
Stralcio di vita di un grande, che chissà quali misteriosi eventi poteva contenere, tra le nostre mani inesperte, intatte, sotto i nostri occhi che non avevano ancora visto nulla.
Per un attimo, ci sentimmo scelte, un po’più in alto degli altri nostri coetanei che continuavano a intrecciare margherite e a giocare a calcio con la carta stagnola, mentre noi stavamo per sapere qualcosa di più, come due veggenti alle prime armi.
Con la sensazione di tenere in mano un monile prezioso e delicato, rigirai il diario tra le dita, sotto lo sguardo attentissimo ed euforico di Anna.
Non era intatto. Mancava della copertina e la prima pagina era stropicciata, alcune erano state strappate e tra queste quella in cui vanno inseriti i dati del proprietario.
Io e la mia amica ci sedemmo, la schiena contro il muro della gradinata, in silenzio, in contemplazione.
«Apri.» disse piano Anna.
Girai la prima pagina. Iniziammo a sfogliare il diario, silenziose, passandocelo l’una con l’altra, pagina dopo pagina.
Era un diario come ogni altro, ma era diverso dai nostri. Facevamo la quarta elementare, sulle pagine lisce e ordinate dei nostri diari c’erano scritti solo compiti, il nome della materia con la penna rossa, gli esercizi con la penna blu, e magari qualche comunicazione per casa qua e là.
Quel diario invece, era completamente diverso e stravolse in un istante la nostra concezione della scuola.
Ovvio, anche lì vi erano annotazioni sui compiti, ma erano scritti alla rinfusa, con la matita o con una penna nera. C’erano disegnini, scarabocchi, scritte. Ciao Ma’, Marchetto, che palle, pezzi di canzoni. Una giustificazione del ritardo scritta alla meno peggio, una pagina dove erano annotati tutti i voti presi. Bassi. Sara non te ce sta. Altri compiti.
Io e Anna non eravamo più in silenzio: ridacchiavamo e commentavamo.
«Ma come c’è arrivato qua?»
«L’avranno lanciato da una finestra.»
«Che facciamo?»
«Lo teniamo.»
«E poi? Lo restituiamo?»
«Sì.»
«Dobbiamo capire chi è il proprietario però…»
«Un certo… Marco?»
Sentimmo a questo punto che la campanella suonava. Non c’avevano ancora trovato o forse avevano smesso di cercarci…
Ci alzammo in piedi, io mi pulii i pantaloni con le mani. «Come lo portiamo a casa?» chiesi ad Anna.
«Dà qui.» le porsi il diario e lei lo infilò nella tasca a tubo della maglietta e poi chiuse ordinatamente tutti i bottoni del grembiule. «Si vede?»
«No, andiamo.»
Tornammo al punto di raccolta sentendoci due criminali, che trafugavano cose illecite all’interno delle candide mura della scuola, due estranee, improvvisamente, che portavano un pezzo di mondo vero dentro la boccia di vetro degli ignari pesci rossi che fino a poco prima eravamo state.
Entrammo in classe vicine, in silenzio, come se, anche solo alzando lo sguardo, rischiassimo di essere smascherate. Smascherate poi, non si sa bene da cosa. Infondo, avevamo solo un diario nascosto sotto al grembiule. Però ci sentivamo così, clandestine. Non so se temevamo di più che la maestra lo trovasse e ce ne privasse o che lo vedessero gli altri, rompendo tutto l’incanto di quell’inaspettato ritrovamento. Fatto sta che Anna riuscì a infilarlo nello zaino senza essere vista da nessuno, mentre io, dall’altra parte della piccola aula, le lanciavo occhiate agitate ma complici.
Tutti gli altri ricopiavano il problema alla lavagna. Pensai che quante figurine rimangono a Giulio dopo che ha diviso quelle doppie tra tutti i suoi amici, non fosse un problema vero, di quelli che esistono nella vita. Certamente il nostro Marco aveva altri grattacapi, e noi ne saremmo venute a conoscenza.
Nel pomeriggio, decidemmo di vederci.
Anna venne a casa mia, accompagnata da sua madre che si fermò per un caffè a chiacchierare con la mia.
Io abitavo, e abito ancora, di fronte al bar Verdi, in viale Verdi appunto, a mezzo minuto dal Liceo e quindi a mezzo minuto dal luogo del ritrovamento.
Io e Anna andammo subito in camera mia, ci sedemmo sul letto e io la guardai. Non c’era bisogno di dire niente; tirò fuori il diario dallo zainetto e ci mettemmo a sfogliarlo sul letto.
«Dobbiamo capire di chi è, dobbiamo ritrovare il proprietario.» «Ma come, Emma? Guarda, la pagina dove si scrive il nome non c’è più.»
«Ma è pieno di scritte, questo coso… qualcosa capiremo.» «D’accordo, ma quando sappiamo di chi è, che ci facciamo? Lo riportiamo?»
«Magari sì…»
Aprimmo il diario. Non ci volle molto a trovare informazioni. Il ragazzo si chiamava Marco Bartoli, c’era scritto chiaro e tondo su una giustificazione.
Prego giustificare mio figlio Marco Bartoli per l’entrata posticipata nel giorno 15/03 causa visita medica. Anticipatamente ringrazio e porgo i miei saluti.
Poi, verso la fine, c’erano annotate le date di alcune partite, probabilmente un torneo della scuola.
Con l’evidenziatore giallo, il nostro Marco aveva sottolineato quelle della 3°C, che evidentemente era la sua classe.
Eravamo Sherlock Holmes, e avevamo i nostri indizi.
Marco e il suo stralcio di vita ci appassionarono, e non poco. Quasi quotidianamente, io e Anna ci incontravamo nel pomeriggio, tiravamo fuori il diario, incrociavamo le gambe sul letto dell’una o dell’altra e iniziavamo a sfogliarlo, a leggerne dei pezzetti. Iniziammo a fantasticare sulla vita di questo ragazzo, sulle sue storie d’amore. Sara non te ce sta, c’era scritto sul 15 dicembre. Iniziammo a porci domande su questa Sara, a creare un profilo fisico a Marco. Ne disegnammo il carattere, soppesando tutti gli indizi: i bassi voti a scuola, il fatto che giocava a calcetto, il modo in cui scriveva, i pezzi di canzoni che aveva deciso di trascrivere. Decidemmo che si trattava di un ragazzo intelligente, ma con poca voglia di studiare. Uno che se ne sta sulle sue, ma che ha un mare di amici. Innamorato cotto di Sara, forse più grande di lui.
Gironzolando per Jesi (o in piazza quando c’era il mercato, o nel tragitto tra casa e scuola, o da dietro i vetri della macchina quando andavo a fare spesa con mamma) osservavo i ragazzi, mi chiedevo quale di loro fosse Marco, dove fosse lui in quel momento.
Io e Anna iniziammo come una doppia vita: la nostra (se non banale e ordinaria comunque troppo abituale) e quella di Marco, che plasmavamo noi, a nostro piacimento.
La mattina, a scuola, facevamo finta di niente, tranne per qualche occhiata euforica che di tanto in tanto ci lanciavamo, in attesa del rientro a casa, dell’immersione in quella realtà parallela che ci eravamo create.
Inizialmente, eravamo convinte che avremmo restituito il diario, portandolo alla segreteria della scuola in modo che tornasse al suo legittimo proprietario.
La buona intenzione fu abbandonata in fretta, sia perché depennammo l’idea di parlarne con i genitori, sia perché ben presto il nostro attaccamento al diario divenne troppo forte, e troppo belli divennero quei momenti passati a fantasticare, quando lo usavamo come porta d’accesso ad un mondo che ancora non ci apparteneva.
Lo tenevamo due settimane per una, riponendolo in due nascondigli scelti con cura e approvati da entrambe.
A casa mia, era nascosto infondo all’armadio, dentro una scatola di un puzzle, sotto altre tre scatole. A casa di Anna, era nascosto nel guardaroba, nella parte dei cappotti, dentro, appunto, la tasca interna di un cappotto. Era perfetto perché, essendo estate, sua madre non aveva da riporre nulla in quella parte del guardaroba: niente magliette lavate, niente gonne stirate. Solo cappotti e piumini che aspettavano in silenzio l’arrivo dell’inverno.