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Maria Lucia Riccioli

~ La Bellezza salverà il mondo (F. Dostoevskij).

Maria Lucia Riccioli

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NOI SIAMO DESDEMONA a Floridia il 26 novembre: articoli e foto

29 martedì Nov 2016

Posted by mlriccioli in Eventi culturali, Letteratura

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Floridia, conferenza sulla violenza alle donne organizzata dalla Fidapa

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Grazie a Salvatore Pappalardo e a La Gazzetta siracusana… riporto l’articolo con i dovuti aggiustamenti.

NEWS

Floridia, conferenza sulla violenza alle donne organizzata dalla Fidapa

di Salvatore Pappalardo
pubblicato il 28 novembre 2016

FLORIDIA – Si è svolta nell’aula consiliare “G. Spada” del comune di Floridia la giornata contro la violenza alle donne. La serata è stata organizzata dalla Fidapa di Floridia ed ha visto la partecipazione del comandante della tenenza dei Carabinieri Maresciallo Marco D’Aquila, della presidente dell’associazione Work in Progress Cristina Sanzaro, della scrittrice Maria Lucia Riccioli e della psicologa e criminologa Maria Irene Messina.

In apertura la presidente della Fidapa Floridia Irene Failla ha sottolineato che il “processo socio economico e un’ampia e un’acquisizione culturale non hanno ne brillato in comportamenti talora aberranti nei confronti delle donne spesso vittime di violenze fisiche e psicologiche, di soprusi e di sfruttamento. Esiste ancora nella società attuale una tale disuguaglianza di genere poiché purtroppo questa società non è ancora in grado di contrapporre allo sciovinismo maschile il rispetto per la dignità della donna”.

Subito dopo ha preso la parola il sindaco di Floridia Orazio Scalorino il quale ha sottolineato l’importanza di queste manifestazioni e maggiore partecipazione a questi eventi. Il primo cittadino ha fatto anche riferimento ad un fatto di cronaca degli ultimi giorni dove un floridiano è stato arrestato per stalking.

Il Comandate della Tenenza dei Carabinieri Maresciallo D’Aquila riportando gli ultimi fatti di cronaca avvenuti nella nostra città soprattutto per quanto riguarda i maltrattamenti in famiglia e il reato di stalking ha invitato tutti a denunciare questi episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne.

La presidente della associazione Work In Progress Cristina Sanzaro ci ha dichiarato:  “Non solo qui a Floridia ma anche in tutta la provincia. Grazie alla collaborazione con il centro antiviolenza “La Nereide” di Adriana Prazio con l’associazione Work in Progress noi abbiamo potuto diciamo essere attivi anche indirettamente anche perché per diventare centro bisogna avere esperienza pluriennale e noi affidandoci e appoggiandoci alla dott.ssa Prazio abbiamo potuto realizzare oggi il centro antiviolenza presente nel territorio di Floridia. Abbiamo avuto donne che hanno chiesto informazioni. Ancora hanno paura di denunciare l’accaduto e quindi bisogna fare prevenzione e sensibilizzazione perché le donne spesso non denunciano, non vogliono denunciare perché hanno paura. Paura del dopo perché è incerto, non sanno dove andare, non hanno una casa e non hanno un futuro. Quindi devono pensare e quindi non denunciano e noi dobbiamo aiutarle a fare ma nella loro giusta scelta. Scelta non obbligata ma scelta libera nel denunciare la mano del carnefice”.

La rappresentante  Young Fidapa  Fabiola Guarino: “ La Fidapa cerca di mettersi a disposizione del territorio, di far conoscere quella che è la nostra realtà e quelle che sono le possibilità di aiuto. La Fidapa si pone come mezzo d’aiuto per chi in realtà è in prima linea, quindi se i carabinieri hanno bisogno, se i centri antiviolenza hanno bisogno di qualcuno che collabori con loro noi siamo a disposizione”.

Per la scrittrice Maria Lucia Riccioli:  “La scrittura ha una grande funzione, intanto quella di far prendere consapevolezza del fenomeno e di studiarlo non dal punto di vista dello psicologo, del criminologo, del poliziotto e così via, ma dal punto di vista espressivo ed emotivo cioè penetrare all’interno dei fatti, magari  fatti di dura cronaca cui noi assistiamo o che leggiamo nelle pagine dei giornali e tentare di scavare nel fondo dell’animo umano. Ecco, questo fa lo scrittore: cercare di compenetrarsi all’interno delle anime nelle quali pulsioni oscure poi danno vita ai fenomeni della violenza, della sottomissione, della sopraffazione e del vittimismo dall’altra parte, cioè quali sono i meccanismi carnefice-vittima. Cosa spinge le vittime a rendersi tali e i carnefici a rendersi tali. L’occhio dello scrittore forse può penetrare in quelle profondità dove spesso la superficialità di certa cronaca o dove spesso le stesse indagini non riescono ad indagare, cioè lo scavo del profondo, del’interiorità e quindi io e altre scrittrici, ognuna dal proprio di vista, hanno narrato che  cosa significhi violenza sulle donne”.

Abbiamo registrato anche l’opinione della psicologa e criminologa Maria Irene Messina:  “Intanto è una cosa come dire arcaica la fragilità fisica delle donne e spesso è errato dire che l’uomo si sente di possedere quasi  come un oggetto la donna. In realtà la violenza oggi ha preso degli spaccati che sono diversi rispetto ad una volta perché non è più solo violenza sulla donna succube dell’uomo ma è diventato qualche volta anche l’inverso. E’ ovvio che c’è una diversità fisica e nello scontro uomo-donna, l’uomo vince sempre favorevolmente. Ma la violenza che più mi spaventa non è quella della violenza fisica, ma è la violenza psicologica perché è quella che non vediamo, è quella per cui non possiamo spesso neanche gli enti accreditati, le istituzioni, riuscire ad essere credibili perché si va lì e si dice sono vittima di mio marito anche psicologicamente. Questo aspetto è difficile perché non si vede. Perché  – aggiunge – se abbiamo un ematoma lo vediamo, al contrario se è una cosa che va oltre la psiche non si riesce. Io farei una prevenzione ma anche una sensibilizzazione a denunciare che è un’altra cosa che non si fa perché i nostri dati sono alti statisticamente ma non sappiamo quante donne non denunciano e spesso non denunciano non solo per la fragilità ma anche perché nella dinamica psicologica nel rapporto uomo-donna spesso c’è questa cosa che la donna incomincia a sentirsi in colpa perché il marito insinua quasi che sei stata tu ad attivare questa dinamica perché altrimenti io non avrei alzato un dito su di te. Per cui dico dinamiche complesse, dinamiche perverse che vanno ancora oggi guardate e condannate. La violenza va condannata sempre in qualunque forma”.

Durante la conferenza alcuni studenti del LIceo Scientifico “L. Da Vinci” di Floridia hanno letto dei brani tratti dal libro “Noi siamo Desdemona”.

Photo courtesy BWP Italy sezione Floridia

Le bellissime installazioni a tema…

Io e la presidentessa Irene Failla…

 

26 Novembre 2016 ore 17:30
Aula Consiliare G.Spada_Floridia
Incontro/Dibattito contro la violenza sulle donne

Rapp. Young Fidapa BPW Italy Sezione di Floridia
Fabiola Daiana Guarino

#fidapadiceno #fidapafloridia #fidapayoung #fidapa#BPWItaly #controlaviolenzasulledonne

— con Maria Lucia Riccioli, Cristina Sanzaro e Irene Messina Montanaro

http://www.algraeditore.it/index.php?option=com_icagenda&view=list&layout=event&id=439&Itemid=177

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA, uscita per i tipi di Algra Editore, sarà al centro del dibattito insieme ai contributi degli ospiti presenti.

Torna il 25 novembre, occasione per ricordare tutte le donne vittime di violenza di genere e per rinnovare l’impegno contro i femminicidi e tutti gli abusi perpetrati contro le donne.

Il 25 novembre dello scorso anno NOI SIAMO DESDEMONA – l’antologia di Algra editore contro il femminicidio – è stata proposta a Scordia (CT) presso la Biblioteca comunale.

Il tour delle presentazioni, iniziato ormai nel 2014, è proseguito dopo Scordia con Valverde (29 novembre 2015), che ha ospitato l’antologia all’interno della rassegna degli Incontri in Biblioteca a cura di Clara Pennisi e Nunzio Lizzio presso la Biblioteca Giuseppe Fava; il 1 dicembre è stata la volta di Siracusa.

Anche nel 2016 proseguono gli appuntamenti dedicati alla lettura e alle riflessioni suscitate da questo libro.

Domenica 6 marzo 2016 alle ore 18, presso la sala consiliare del Comune di Zafferana Etnea, si è tenuto l’incontro incentrato su NOI SIAMO DESDEMONA.

Un ringraziamento al sindaco Alfio Vincenzo Russo, all’assessora alle Pari Opportunità Angela Di Bella, all’associazione Giuseppe Sciuti e alla musicista Linda Vinciullo.

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Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

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Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici…

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA (Algra Editore), il cui “tour” non si ferma – ah come vorremmo che si arrestasse insieme a ciò che condanna! – contiene un mio racconto scritto a quattro mani con Mavie Parisi.

Eccolo…

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

https://letteredalconvento.wordpress.com/tag/maria-lucia-riccioli/

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

Vi dono una chicca: un’immagine realizzata dall’artista Daniele Blundo… una donna bellissima e gioiosa, libera e felice. Credo che interpreti lo spirito della giornata.

Daniele Blundo, Donna

Ecco la recensione presente sul sito della SIL, la Società Italiana delle Letterate:

http://www.societadelleletterate.it/2015/04/abbadessa-2/

Morire in un tuo bacio

di Emanuela E. Abbadessa

in Letterate Magazine, LM Home, Parole/Visioni |

Prima d’ucciderti, io t’ho baciata.
Non mi restava altro modo che questo:
uccidermi morendo in un tuo bacio.

(W. Shakespeare, Otello)

 

Noi donne siamo davvero Desdemona? Come lei nella morsa di Otello, vilipese, violentate, illuse, annientate, soffocate immotivatamente da una cieca furia maschile? La risposta è positiva, secondo Algra, neonata casa editrice siciliana che ha come obiettivo quello di dare voce a tutte le forme di espressione artistica. Il titolo che infatti Algra ha mandato in libreria un anno fa in occasione dell’8 marzo è Noi siamo Desdemona, un volume di racconti a più mani – inserito nella collana “Fiori Blu” – che si fregia di firme importanti da Simona Lo Iacono a Lia Levi, da Tea Ranno ad Elvira Seminara.

Undici racconti di sopraffazione, di violenza e di dolore, quasi una corona di fiori sulle tombe di altrettante vittime della brutalità gratuita, messe insieme con garbo da Maria Rita Pennisi, direttore artistico di festival come Poe(t)n@ e di Narrazioni di Settembre.

Le storie minime e atroci di donne violate e uccise si susseguono in una serie di camei che ritraggono la profuga dell’Est costretta alla prostituzione (Il verificatore insonne della Attanasio), la mater dolente narrata (Il peggior nemico della donna è una donna di Angela Bonanno), Maria Rita bruciata viva (Cosa rimane di lei della Fiume), la donna per la quale il dono di una rosa è solo sinonimo di una riparazione impossibile a nuove atrocità (Trenta rose della Levi), fino a quella sorta di Malèna bellissima e triste ritratta dalla Lo Iacono con rara efficacia in Il dannamento.

Tra la violenza psichica raccontata dalla Pavone e quella brada descritta dalla Ranno, trova però spazio anche la vicenda di Salvuccio, il ragazzino che voleva essere chiamato Manuela, come l’eroina della sua telenovela preferita. Molestato dallo zio, Manuela è omosessuale per bisogno, trans per necessità, prostituta per sopravvivenza e cadavere senza alcuna ragione. Manuela, lo scherzo della natura, l’incompreso, si staglia tra le vittime incolpevoli con la grazia di un martire cristiano, di un San Sebastiano col trucco pesante, sullo sfondo di una Palermo sfolgorante di bellezza.

La sensazione di disperata vacuità che resta addosso dopo la lettura dei racconti, trova in qualche modo una catarsi dolente nelle pagine che chiudono il volume. E’ Elvira Seminara a scriverle mettendosi alla prova con il silenzio estremo che pervade all’esalare dell’ultimo soffio di vita, intessendo così un commovente accompagnamento alla morte dal titolo che riecheggia un altrimenti sensuale e struggente Neruda, Sei bellissima quando dormi.

Mogli, madri, figlie, sorelle, amanti indifese e vittime di uomini troppo cattivi, capaci di feroci escalation di violenza. Innocenti le donne, tutte indistintamente.

Ed ecco il punto, in questo volume, come altrove, nelle pagine di cronaca nera e soprattutto nelle molte altre che riempiono ormai gli scaffali delle librerie – e fortunatamente perché solo parlando di questa violenza si può veramente formare una coscienza sociale del problema –, le donne sono sempre e unicamente vittime innocenti, incolpevoli agnelli sacrificali, capri espiatori. Lo sottolinea anche la Pennisi nella sua Prefazione: «Il titolo Noi siamo Desdemona è sorto spontaneo, pensando all’innocente Desdemona, vittima della furia cieca di un uomo».

Io credo però che un vero passo in avanti nel dibattito debba essere condotto su un altro piano. Un piano di reale uguaglianza sul quale la questione non può in alcun modo essere legata ai concetti di innocenza e colpevolezza se è vero com’è vero e come urlavano i nostri slogan di allora, che siamo “né streghe né madonne, solo donne”.

Si diceva un tempo (e si continua a dire oggi) che la vera conquista per le donne non sta nel fatto che una donna intelligente possa occupare un posto di potere ma che possa farlo una donna stupida, perché, nella pratica, gli uomini stupidi in alcuni casi già lo fanno. Mutatis mutandis, dunque, non sarebbe più corretto pensare che nessun essere umano deve essere ucciso e che a fortiori, una donna non si uccide non solo in quei casi in cui è vittima innocente di gelosia folle, di possessività, di insensate smanie di dominio ma anche quando davvero tradisce (ammesso che abbia senso parlare di tradimento, da qualsiasi individuo provenga, e non piuttosto di libera scelta di amare e di smettere di amare così com’è normale che sia e come di fatto avviene nella vita), quando reclama giustamente la propria totale autonomia, quando chiede rapporti di coppia paritari?

Uscendo quindi da questo impasse in cui i fantasmi delle troppe vittime somigliano a personaggi stilnovistici da innalzare al ruolo di dee e annientare appuntando loro una “A” scarlatta sul petto, proviamo a immaginare non Desdemona, ma Carmen. Una Carmen libera e traditrice, capace di irretire con una promessa d’amore don Josè e libera poi di lasciarlo per Escamillo. Vestiamo i suoi di panni, quelli sporchi e bagnati di sudore, non le trine di Desdemona e, come lei affermiamo la nostra libertà di non dover morire punite dal coltello dell’amante rifiutato. Perché una donna non si uccide mai, né che sia fedele, succube e obbediente né che proclami la propria autonomia, la propria libertà di amare, di non amare e concedersi a chi vuole.

Maria Rita Pennisi (a cura di) Noi siamo Desdemona, con testi di Maria Attanasio , Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Mavie Parisi, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi, Tea Ranno, Maria Lucia Riccioli, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara, Algra 2014, 108 pagine, 8,50 euro

Tagged Emanuela E. Abbadessa, LM n.132 |

Grazie ad Emanuela Ersilia Abbadessa e a Letterate Magazine.

 

Cronistoria di NOI SIAMO DESDEMONA

Il 13 marzo 2014, presso La Feltrinelli di Catania, Maria Lucia Riccioli ha presentato insieme alle coautrici – tra cui Elvira Seminara, Maria Attanasio, Marinella Fiume, Lia Levi – l’antologia curata da Maria Rita Pennisi “Noi siamo Desdemona” (Algra Editore), recensita da Lucia Russo su “La Sicilia” e da Emanuela Ersilia Abbadessa su “La Repubblica – Palermo” poi riproposta ad Acireale presso la Banca Agricola Popolare di Ragusa dal Cenacolo del Galatea il 14 aprile. Il 3 maggio l’antologia è stata presentata a Siracusa in occasione del convegno della FILDIS sul femminicidio e la violenza di genere, patrocinato dall’ISISC (Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) e svolto in collaborazione con la Galleria Roma, i centri antiviolenza “Doride” e “La Nereide”, l’associazione culturale Extramoenia e l’associazione “Projecto-Tango” di Catania. L’antologia è stata presentata il 24 maggio ad Avola presso la Libreria Mondadori da Sebastiano Burgaretta insieme all’avvocata Dorotea Romano del centro antiviolenza “Doride” e di Marcello Ribbera e il 31 maggio è stata presentata presso l’edicola-libreria “Aedicula” ad Acicastello, mentre il 15 luglio Maria Attanasio e Maria Rita Pennisi l’hanno presentata insieme ad Anna Montemagno e Domenico Amoroso a Caltagirone presso l’ex Biblioteca comunale ora sede del Museo internazionale del presepe (Collezione L. Colaleo). Il tour è proseguito presso la Libreria Mondadori di Catania (1 novembre), presso la Casa delle culture di Giarre (24 novembre), presso la Casa del libro Rosario Mascali di Siracusa (il 25 novembre, a cura di Maria Rita Pennisi e Maria Lucia Riccioli), a Scordia il 25 novembre 2015 presso la Biblioteca comunale “G. Barchitta”, a Valverde (SR) presso la Biblioteca “G. Fava” e a Siracusa presso la Biblioteca comunale il 1 dicembre; il volume è stato presentato il 6 marzo 2016 a Zafferana Etnea e l’8 marzo a Valverde (CT). Il 26 novembre 2016 il libro sarà protagonista di un incontro/dibattito contro la violenza sulle donne, curato dalla rappresentante della Young Fidapa BPW Italy, sezione di Floridia, Fabiola Daiana Guarino, presso l’aula consiliare del comune di Floridia (SR). 

Le due antologie con i racconti dell’autrice contro il femminicidio sono state esposte a Frosinone nell’ambito della mostra dedicata, a cura della Fondazione “Giuseppe Bonaviri”.

#fidapadiceno #fidapafloridia #fidapayoung #fidapa#BPWItaly #controlaviolenzasulledonne

— con Maria Lucia Riccioli, Cristina Sanzaro e Irene Messina Montanaro

 

 

NOI SIAMO DESDEMONA a Floridia il 26 novembre

25 venerdì Nov 2016

Posted by mlriccioli in Eventi culturali, Letteratura

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26 Novembre 2016 ore 17:30
Aula Consiliare G.Spada_Floridia
Incontro/Dibattito contro la violenza sulle donne

Rapp. Young Fidapa BPW Italy Sezione di Floridia
Fabiola Daiana Guarino

#fidapadiceno #fidapafloridia #fidapayoung #fidapa#BPWItaly #controlaviolenzasulledonne

— con Maria Lucia Riccioli, Cristina Sanzaro e Irene Messina Montanaro

http://www.algraeditore.it/index.php?option=com_icagenda&view=list&layout=event&id=439&Itemid=177

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA, uscita per i tipi di Algra Editore, sarà al centro del dibattito insieme ai contributi degli ospiti presenti.

Torna il 25 novembre, occasione per ricordare tutte le donne vittime di violenza di genere e per rinnovare l’impegno contro i femminicidi e tutti gli abusi perpetrati contro le donne.

Il 25 novembre dello scorso anno NOI SIAMO DESDEMONA – l’antologia di Algra editore contro il femminicidio – è stata proposta a Scordia (CT) presso la Biblioteca comunale.

Il tour delle presentazioni, iniziato ormai nel 2014, è proseguito dopo Scordia con Valverde (29 novembre 2015), che ha ospitato l’antologia all’interno della rassegna degli Incontri in Biblioteca a cura di Clara Pennisi e Nunzio Lizzio presso la Biblioteca Giuseppe Fava; il 1 dicembre è stata la volta di Siracusa.

Anche nel 2016 proseguono gli appuntamenti dedicati alla lettura e alle riflessioni suscitate da questo libro.

Domenica 6 marzo 2016 alle ore 18, presso la sala consiliare del Comune di Zafferana Etnea, si è tenuto l’incontro incentrato su NOI SIAMO DESDEMONA.

Un ringraziamento al sindaco Alfio Vincenzo Russo, all’assessora alle Pari Opportunità Angela Di Bella, all’associazione Giuseppe Sciuti e alla musicista Linda Vinciullo.

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Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

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Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici…

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA (Algra Editore), il cui “tour” non si ferma – ah come vorremmo che si arrestasse insieme a ciò che condanna! – contiene un mio racconto scritto a quattro mani con Mavie Parisi.

Eccolo…

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

https://letteredalconvento.wordpress.com/tag/maria-lucia-riccioli/

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

Vi dono una chicca: un’immagine realizzata dall’artista Daniele Blundo… una donna bellissima e gioiosa, libera e felice. Credo che interpreti lo spirito della giornata.

Daniele Blundo, Donna

Ecco la recensione presente sul sito della SIL, la Società Italiana delle Letterate:

http://www.societadelleletterate.it/2015/04/abbadessa-2/

Morire in un tuo bacio

di Emanuela E. Abbadessa

in Letterate Magazine, LM Home, Parole/Visioni |

Prima d’ucciderti, io t’ho baciata.
Non mi restava altro modo che questo:
uccidermi morendo in un tuo bacio.

(W. Shakespeare, Otello)

 

Noi donne siamo davvero Desdemona? Come lei nella morsa di Otello, vilipese, violentate, illuse, annientate, soffocate immotivatamente da una cieca furia maschile? La risposta è positiva, secondo Algra, neonata casa editrice siciliana che ha come obiettivo quello di dare voce a tutte le forme di espressione artistica. Il titolo che infatti Algra ha mandato in libreria un anno fa in occasione dell’8 marzo è Noi siamo Desdemona, un volume di racconti a più mani – inserito nella collana “Fiori Blu” – che si fregia di firme importanti da Simona Lo Iacono a Lia Levi, da Tea Ranno ad Elvira Seminara.

Undici racconti di sopraffazione, di violenza e di dolore, quasi una corona di fiori sulle tombe di altrettante vittime della brutalità gratuita, messe insieme con garbo da Maria Rita Pennisi, direttore artistico di festival come Poe(t)n@ e di Narrazioni di Settembre.

Le storie minime e atroci di donne violate e uccise si susseguono in una serie di camei che ritraggono la profuga dell’Est costretta alla prostituzione (Il verificatore insonne della Attanasio), la mater dolente narrata (Il peggior nemico della donna è una donna di Angela Bonanno), Maria Rita bruciata viva (Cosa rimane di lei della Fiume), la donna per la quale il dono di una rosa è solo sinonimo di una riparazione impossibile a nuove atrocità (Trenta rose della Levi), fino a quella sorta di Malèna bellissima e triste ritratta dalla Lo Iacono con rara efficacia in Il dannamento.

Tra la violenza psichica raccontata dalla Pavone e quella brada descritta dalla Ranno, trova però spazio anche la vicenda di Salvuccio, il ragazzino che voleva essere chiamato Manuela, come l’eroina della sua telenovela preferita. Molestato dallo zio, Manuela è omosessuale per bisogno, trans per necessità, prostituta per sopravvivenza e cadavere senza alcuna ragione. Manuela, lo scherzo della natura, l’incompreso, si staglia tra le vittime incolpevoli con la grazia di un martire cristiano, di un San Sebastiano col trucco pesante, sullo sfondo di una Palermo sfolgorante di bellezza.

La sensazione di disperata vacuità che resta addosso dopo la lettura dei racconti, trova in qualche modo una catarsi dolente nelle pagine che chiudono il volume. E’ Elvira Seminara a scriverle mettendosi alla prova con il silenzio estremo che pervade all’esalare dell’ultimo soffio di vita, intessendo così un commovente accompagnamento alla morte dal titolo che riecheggia un altrimenti sensuale e struggente Neruda, Sei bellissima quando dormi.

Mogli, madri, figlie, sorelle, amanti indifese e vittime di uomini troppo cattivi, capaci di feroci escalation di violenza. Innocenti le donne, tutte indistintamente.

Ed ecco il punto, in questo volume, come altrove, nelle pagine di cronaca nera e soprattutto nelle molte altre che riempiono ormai gli scaffali delle librerie – e fortunatamente perché solo parlando di questa violenza si può veramente formare una coscienza sociale del problema –, le donne sono sempre e unicamente vittime innocenti, incolpevoli agnelli sacrificali, capri espiatori. Lo sottolinea anche la Pennisi nella sua Prefazione: «Il titolo Noi siamo Desdemona è sorto spontaneo, pensando all’innocente Desdemona, vittima della furia cieca di un uomo».

Io credo però che un vero passo in avanti nel dibattito debba essere condotto su un altro piano. Un piano di reale uguaglianza sul quale la questione non può in alcun modo essere legata ai concetti di innocenza e colpevolezza se è vero com’è vero e come urlavano i nostri slogan di allora, che siamo “né streghe né madonne, solo donne”.

Si diceva un tempo (e si continua a dire oggi) che la vera conquista per le donne non sta nel fatto che una donna intelligente possa occupare un posto di potere ma che possa farlo una donna stupida, perché, nella pratica, gli uomini stupidi in alcuni casi già lo fanno. Mutatis mutandis, dunque, non sarebbe più corretto pensare che nessun essere umano deve essere ucciso e che a fortiori, una donna non si uccide non solo in quei casi in cui è vittima innocente di gelosia folle, di possessività, di insensate smanie di dominio ma anche quando davvero tradisce (ammesso che abbia senso parlare di tradimento, da qualsiasi individuo provenga, e non piuttosto di libera scelta di amare e di smettere di amare così com’è normale che sia e come di fatto avviene nella vita), quando reclama giustamente la propria totale autonomia, quando chiede rapporti di coppia paritari?

Uscendo quindi da questo impasse in cui i fantasmi delle troppe vittime somigliano a personaggi stilnovistici da innalzare al ruolo di dee e annientare appuntando loro una “A” scarlatta sul petto, proviamo a immaginare non Desdemona, ma Carmen. Una Carmen libera e traditrice, capace di irretire con una promessa d’amore don Josè e libera poi di lasciarlo per Escamillo. Vestiamo i suoi di panni, quelli sporchi e bagnati di sudore, non le trine di Desdemona e, come lei affermiamo la nostra libertà di non dover morire punite dal coltello dell’amante rifiutato. Perché una donna non si uccide mai, né che sia fedele, succube e obbediente né che proclami la propria autonomia, la propria libertà di amare, di non amare e concedersi a chi vuole.

Maria Rita Pennisi (a cura di) Noi siamo Desdemona, con testi di Maria Attanasio , Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Mavie Parisi, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi, Tea Ranno, Maria Lucia Riccioli, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara, Algra 2014, 108 pagine, 8,50 euro

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Grazie ad Emanuela Ersilia Abbadessa e a Letterate Magazine.

 

Cronistoria di NOI SIAMO DESDEMONA

Il 13 marzo 2014, presso La Feltrinelli di Catania, Maria Lucia Riccioli ha presentato insieme alle coautrici – tra cui Elvira Seminara, Maria Attanasio, Marinella Fiume, Lia Levi – l’antologia curata da Maria Rita Pennisi “Noi siamo Desdemona” (Algra Editore), recensita da Lucia Russo su “La Sicilia” e da Emanuela Ersilia Abbadessa su “La Repubblica – Palermo” poi riproposta ad Acireale presso la Banca Agricola Popolare di Ragusa dal Cenacolo del Galatea il 14 aprile. Il 3 maggio l’antologia è stata presentata a Siracusa in occasione del convegno della FILDIS sul femminicidio e la violenza di genere, patrocinato dall’ISISC (Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) e svolto in collaborazione con la Galleria Roma, i centri antiviolenza “Doride” e “La Nereide”, l’associazione culturale Extramoenia e l’associazione “Projecto-Tango” di Catania. L’antologia è stata presentata il 24 maggio ad Avola presso la Libreria Mondadori da Sebastiano Burgaretta insieme all’avvocata Dorotea Romano del centro antiviolenza “Doride” e di Marcello Ribbera e il 31 maggio è stata presentata presso l’edicola-libreria “Aedicula” ad Acicastello, mentre il 15 luglio Maria Attanasio e Maria Rita Pennisi l’hanno presentata insieme ad Anna Montemagno e Domenico Amoroso a Caltagirone presso l’ex Biblioteca comunale ora sede del Museo internazionale del presepe (Collezione L. Colaleo). Il tour è proseguito presso la Libreria Mondadori di Catania (1 novembre), presso la Casa delle culture di Giarre (24 novembre), presso la Casa del libro Rosario Mascali di Siracusa (il 25 novembre, a cura di Maria Rita Pennisi e Maria Lucia Riccioli), a Scordia il 25 novembre 2015 presso la Biblioteca comunale “G. Barchitta”, a Valverde (SR) presso la Biblioteca “G. Fava” e a Siracusa presso la Biblioteca comunale il 1 dicembre; il volume è stato presentato il 6 marzo 2016 a Zafferana Etnea e l’8 marzo a Valverde (CT). Il 26 novembre 2016 il libro sarà protagonista di un incontro/dibattito contro la violenza sulle donne, curato dalla rappresentante della Young Fidapa BPW Italy, sezione di Floridia, Fabiola Daiana Guarino, presso l’aula consiliare del comune di Floridia (SR). 

Le due antologie con i racconti dell’autrice contro il femminicidio sono state esposte a Frosinone nell’ambito della mostra dedicata, a cura della Fondazione “Giuseppe Bonaviri”.

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— con Maria Lucia Riccioli, Cristina Sanzaro e Irene Messina Montanaro

 

 

NOI SIAMO DESDEMONA a Zafferana e a Valverde: 6 e 8 marzo

08 martedì Mar 2016

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25 novembre, Alfio Vincenzo Russo, Algra Editore, Angela Di Bella, Anna Maria Rizzo, antologia, Beddu Viddi, Casa del Libro Rosario Mascali, Casablanca, Clara Pennisi, Daniele Blundo, femminicidio, Franco Tambone, Giuseppe Sciuti, Graziella Proto, Incontri in Biblioteca, Lei, Letterate Magazine, Linda Vinciullo, Loro, Lui, Maria Lucia Riccioli, Maria Rita Pennisi, Mavie Parisi, Noi siamo Desdemona, Nunzio Lizzio, Orazio Caruso, rivista antimafia, Rocco Sapuppo, Sarzana, Scordia, SIL, Società Italiana delle Letterate, Valverde, Valverde viva, violenza di genere, Vuci di Genti

https://www.facebook.com/events/215434945477792/ (l’evento Facebook)

Vi aspettiamo tutti per celebrare assieme la Giornata internazionale della Donna oggi pomeriggio alle 18.00 a Valverde (CT) in corso Vittorio Emanuele 84.

Graziella Proto, direttora della rivista antimafia CASABLANCA, e Maria Rita Pennisi, docente, scrittrice e curatrice dell’antologia NOI SIAMO DESDEMONA, uscita per i tipi di Algra Editore, saranno insieme a me per parlare di 8 marzo e femminicidio, violenza di genere e pari opportunità.

Torna l’8 marzo, occasione per ricordare tutte le donne vittime di violenza di genere e per rinnovare l’impegno contro i femminicidi e tutti gli abusi perpetrati contro le donne.

Giorno 25 novembre scorso NOI SIAMO DESDEMONA – l’antologia di Algra editore contro il femminicidio – è stata proposta a Scordia (CT) presso la Biblioteca comunale.

Il tour delle presentazioni, iniziato ormai nel 2014, è proseguito dopo Scordia con Valverde (29 novembre 2015), che ha ospitato l’antologia all’interno della rassegna degli Incontri in Biblioteca a cura di Clara Pennisi e Nunzio Lizzio presso la Biblioteca Giuseppe Fava; il 1 dicembre è stata la volta di Siracusa.

Anche in questo 2016 appena iniziato proseguono gli appuntamenti dedicati alla lettura e alle riflessioni suscitate da questo libro.

Domenica 6 marzo 2016 alle ore 18, presso la sala consiliare del Comune di Zafferana Etnea, si è tenuto l’incontro incentrato su NOI SIAMO DESDEMONA.

Un ringraziamento al sindaco Alfio Vincenzo Russo, all’assessora alle Pari Opportunità Angela Di Bella, all’associazione Giuseppe Sciuti e alla musicista Linda Vinciullo.

DSC06176

Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

noi-siamo-desdemona-765x600

Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici…

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA (Algra Editore), il cui “tour” non si ferma – ah come vorremmo che si arrestasse insieme a ciò che condanna! – contiene un mio racconto scritto a quattro mani con Mavie Parisi.

Eccolo…

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

https://letteredalconvento.wordpress.com/tag/maria-lucia-riccioli/

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

Ho voluto postare questa foto per testimoniare l’impegno di tante amministrazioni per la sensibilizzazione su questo tema.

Vi dono una chicca: un’immagine realizzata dall’artista Daniele Blundo… una donna bellissima e gioiosa, libera e felice. Credo che interpreti lo spirito della giornata.

Daniele Blundo, Donna

Ecco la recensione presente sul sito della SIL, la Società Italiana delle Letterate:

http://www.societadelleletterate.it/2015/04/abbadessa-2/

Morire in un tuo bacio

di Emanuela E. Abbadessa

in Letterate Magazine, LM Home, Parole/Visioni |

Prima d’ucciderti, io t’ho baciata.
Non mi restava altro modo che questo:
uccidermi morendo in un tuo bacio.

(W. Shakespeare, Otello)

 

Noi donne siamo davvero Desdemona? Come lei nella morsa di Otello, vilipese, violentate, illuse, annientate, soffocate immotivatamente da una cieca furia maschile? La risposta è positiva, secondo Algra, neonata casa editrice siciliana che ha come obiettivo quello di dare voce a tutte le forme di espressione artistica. Il titolo che infatti Algra ha mandato in libreria un anno fa in occasione dell’8 marzo è Noi siamo Desdemona, un volume di racconti a più mani – inserito nella collana “Fiori Blu” – che si fregia di firme importanti da Simona Lo Iacono a Lia Levi, da Tea Ranno ad Elvira Seminara.

Undici racconti di sopraffazione, di violenza e di dolore, quasi una corona di fiori sulle tombe di altrettante vittime della brutalità gratuita, messe insieme con garbo da Maria Rita Pennisi, direttore artistico di festival come Poe(t)n@ e di Narrazioni di Settembre.

Le storie minime e atroci di donne violate e uccise si susseguono in una serie di camei che ritraggono la profuga dell’Est costretta alla prostituzione (Il verificatore insonne della Attanasio), la mater dolente narrata (Il peggior nemico della donna è una donna di Angela Bonanno), Maria Rita bruciata viva (Cosa rimane di lei della Fiume), la donna per la quale il dono di una rosa è solo sinonimo di una riparazione impossibile a nuove atrocità (Trenta rose della Levi), fino a quella sorta di Malèna bellissima e triste ritratta dalla Lo Iacono con rara efficacia in Il dannamento.

Tra la violenza psichica raccontata dalla Pavone e quella brada descritta dalla Ranno, trova però spazio anche la vicenda di Salvuccio, il ragazzino che voleva essere chiamato Manuela, come l’eroina della sua telenovela preferita. Molestato dallo zio, Manuela è omosessuale per bisogno, trans per necessità, prostituta per sopravvivenza e cadavere senza alcuna ragione. Manuela, lo scherzo della natura, l’incompreso, si staglia tra le vittime incolpevoli con la grazia di un martire cristiano, di un San Sebastiano col trucco pesante, sullo sfondo di una Palermo sfolgorante di bellezza.

La sensazione di disperata vacuità che resta addosso dopo la lettura dei racconti, trova in qualche modo una catarsi dolente nelle pagine che chiudono il volume. E’ Elvira Seminara a scriverle mettendosi alla prova con il silenzio estremo che pervade all’esalare dell’ultimo soffio di vita, intessendo così un commovente accompagnamento alla morte dal titolo che riecheggia un altrimenti sensuale e struggente Neruda, Sei bellissima quando dormi.

Mogli, madri, figlie, sorelle, amanti indifese e vittime di uomini troppo cattivi, capaci di feroci escalation di violenza. Innocenti le donne, tutte indistintamente.

Ed ecco il punto, in questo volume, come altrove, nelle pagine di cronaca nera e soprattutto nelle molte altre che riempiono ormai gli scaffali delle librerie – e fortunatamente perché solo parlando di questa violenza si può veramente formare una coscienza sociale del problema –, le donne sono sempre e unicamente vittime innocenti, incolpevoli agnelli sacrificali, capri espiatori. Lo sottolinea anche la Pennisi nella sua Prefazione: «Il titolo Noi siamo Desdemona è sorto spontaneo, pensando all’innocente Desdemona, vittima della furia cieca di un uomo».

Io credo però che un vero passo in avanti nel dibattito debba essere condotto su un altro piano. Un piano di reale uguaglianza sul quale la questione non può in alcun modo essere legata ai concetti di innocenza e colpevolezza se è vero com’è vero e come urlavano i nostri slogan di allora, che siamo “né streghe né madonne, solo donne”.

Si diceva un tempo (e si continua a dire oggi) che la vera conquista per le donne non sta nel fatto che una donna intelligente possa occupare un posto di potere ma che possa farlo una donna stupida, perché, nella pratica, gli uomini stupidi in alcuni casi già lo fanno. Mutatis mutandis, dunque, non sarebbe più corretto pensare che nessun essere umano deve essere ucciso e che a fortiori, una donna non si uccide non solo in quei casi in cui è vittima innocente di gelosia folle, di possessività, di insensate smanie di dominio ma anche quando davvero tradisce (ammesso che abbia senso parlare di tradimento, da qualsiasi individuo provenga, e non piuttosto di libera scelta di amare e di smettere di amare così com’è normale che sia e come di fatto avviene nella vita), quando reclama giustamente la propria totale autonomia, quando chiede rapporti di coppia paritari?

Uscendo quindi da questo impasse in cui i fantasmi delle troppe vittime somigliano a personaggi stilnovistici da innalzare al ruolo di dee e annientare appuntando loro una “A” scarlatta sul petto, proviamo a immaginare non Desdemona, ma Carmen. Una Carmen libera e traditrice, capace di irretire con una promessa d’amore don Josè e libera poi di lasciarlo per Escamillo. Vestiamo i suoi di panni, quelli sporchi e bagnati di sudore, non le trine di Desdemona e, come lei affermiamo la nostra libertà di non dover morire punite dal coltello dell’amante rifiutato. Perché una donna non si uccide mai, né che sia fedele, succube e obbediente né che proclami la propria autonomia, la propria libertà di amare, di non amare e concedersi a chi vuole.

Maria Rita Pennisi (a cura di) Noi siamo Desdemona, con testi di Maria Attanasio , Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Mavie Parisi, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi, Tea Ranno, Maria Lucia Riccioli, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara, Algra 2014, 108 pagine, 8,50 euro

Tagged Emanuela E. Abbadessa, LM n.132 |

Grazie ad Emanuela Ersilia Abbadessa e a Letterate Magazine.

 

 

NOI SIAMO DESDEMONA a Zafferana e a Valverde: 6 e 8 marzo

06 domenica Mar 2016

Posted by mlriccioli in Eventi culturali, Letteratura

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25 novembre, Alfio Vincenzo Russo, Algra Editore, Angela Di Bella, Anna Maria Rizzo, antologia, Casa del Libro Rosario Mascali, Clara Pennisi, femminicidio, Franco Tambone, Giuseppe Sciuti, Incontri in Biblioteca, Lei, Linda Vinciullo, Loro, Lui, Maria Lucia Riccioli, Maria Rita Pennisi, Mavie Parisi, Noi siamo Desdemona, Nunzio Lizzio, Orazio Caruso, Rocco Sapuppo, Sarzana, Scordia, Valverde, violenza di genere

https://www.facebook.com/events/141241229599010/

Torna l’8 marzo, occasione per ricordare tutte le donne vittime di violenza di genere e per rinnovare l’impegno contro i femminicidi e tutti gli abusi perpetrati contro le donne.

Giorno 25 novembre scorso NOI SIAMO DESDEMONA – l’antologia di Algra editore contro il femminicidio – è stata proposta a Scordia (CT) presso la Biblioteca comunale.

Il tour delle presentazioni, iniziato ormai nel 2014, è proseguito dopo Scordia con Valverde (29 novembre 2015), che ha ospitato l’antologia all’interno della rassegna degli Incontri in Biblioteca a cura di Clara Pennisi e Nunzio Lizzio presso la Biblioteca Giuseppe Fava; il 1 dicembre è stata la volta di Siracusa.

Anche in questo 2016 appena iniziato proseguono gli appuntamenti dedicati alla lettura e alle riflessioni suscitate da questo libro.

Domenica 6 marzo 2016 alle ore 18, presso la sala consiliare del Comune di Zafferana Etnea, ci sarà l’incontro incentrato su NOI SIAMO DESDEMONA.

Un ringraziamento al sindaco Alfio Vincenzo Russo, all’assessora alle Pari Opportunità Angela Di Bella, all’associazione Giuseppe Sciuti e alla musicista

DSC06176

Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

noi-siamo-desdemona-765x600

Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici…

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA (Algra Editore), il cui “tour” non si ferma – ah come vorremmo che si arrestasse insieme a ciò che condanna! – contiene un mio racconto scritto a quattro mani con Mavie Parisi.

Eccolo…

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

https://letteredalconvento.wordpress.com/tag/maria-lucia-riccioli/

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

Ho voluto postare questa foto per testimoniare l’impegno di tante amministrazioni per la sensibilizzazione su questo tema.

 

 

 

 

Mavì Carolina Parisi a Siracusa… e su La Civetta. Le foto!

21 domenica Feb 2016

Posted by mlriccioli in Eventi culturali, Letteratura

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25 novembre, Alessio Grillo, Algra Editore, Anna Maria Rizzo, antologia, Antonio Famà, Casa del Libro Rosario Mascali, Clara Pennisi, Dentro due valigie rosse, E sono creta che muta, femminicidio, Franco Tambone, I caratteri dell'alfabeto, Incontri in Biblioteca, La Civetta di Minerva, Lei, Loro, Lui, Maria Lucia Riccioli, Maria Rita Pennisi, Mavì Carolina Parisi, Mavie Carolina Parisi, Mavie Parisi, Noi siamo Desdemona, Nunzio Lizzio, Orazio Caruso, Quando una donna, Rocco Sapuppo, Scordia, Simona Lo Iacono, Valverde, violenza di genere

Acquistate La Civetta di Minerva in edicola!

Venerdì 19 febbraio 2016… il nuovo numero!

A questo link trovate sul giornale on line alcuni dei miei articoli precedenti…

http://www.lacivettapress.it/it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=17&Itemid=143

Invece sul cartaceo che come al solito rimarrà due settimane in edicola troverete la mia intervista a Mavì Carolina Parisi in occasione della presentazione…

 

Il 19 febbraio, venerdì, la Casa del Libro Rosario Mascali ha ospitato la presentazione del nuovo libro di Mavì Carolina Parisi, I CARATTERI DELL’ALFABETO, Algra editore.

Simona Lo Iacono e Maria Lucia Riccioli hanno presentato il libro di Mavì Carolina Parisi “I caratteri dell’alfabeto” con le illustrazioni di Alessio Grillo, Algra Editore.

Può l’intero inventario dei sentimenti umani, degli stati d’animo, dei tic, delle fobie o delle ossessioni essere compendiato nelle ventuno lettere dell’alfabeto? Certamente no, ma si può provare a darne una visione di insieme, seppure necessariamente incompleta. È questo che prova a fare l’autrice, osservando con occhio benevolo la sua serie di ventuno personaggi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, appunto. Uno sguardo acuto e ironico su quanto di reale, di grottesco o tenero, di drammatico o comico si nasconde tra le increspature delle vicende umane.

Mavie Carolina Parisi vive a Catania, dove insegna matematica e scienze. Della stessa autrice i romanzi E sono creta che muta (edizioni PerroneLab), Quando una donna (Giulio Perrone Editore), Dentro due valigie rosse (Giulio Perrone Editore). Nonostante abbia pubblicato molti racconti in varie antologie, è la prima volta che dà alle stampe una raccolta tutta sua.

Ecco qualche fotografia dell’evento…

Io, Mavì Parisi, Simona Lo Iacono e gli amici della Casa del Libro Rosario Mascali.

Ci tengo anche a ringraziare Angelo Orlando Meloni, scrittore siracusano, che ci ha accolti con la sua competenza e simpatia.

Antonio Famà ha letto alcuni passi dei racconti di Mavì Parisi… ed ha sorpreso pubblico ed autrice con una performance teatrale… ecco il suo commento ai racconti.

A volte pensiamo di conoscerci meglio di come chiunque possa descriverci. Poi, ad esempio, ti imbatti ne I colori dell’alfabeto di Mavì Carolina Parisi, nei suoi personaggi, nelle sue storie e scopri che con le parole degli altri possiamo capire e sapere e apprendere e meravigliarci di noi stessi. Questi racconti sono finestre su altri, anonimi altri, e su ognuno di noi. Leggendoli, ci leggiamo.

Io e Mavì Parisi abbiamo reso omaggio ad Elio Vittorini in occasione del cinquantesimo dalla sua morte (1966-2016).

Per i tipi di Algra Editore è uscita l’antologia NOI SIAMO DESDEMONA con vari racconti di diverse autrici contro il femminicidio.

All’interno del libro è presente il racconto LORO, scritto a quattro mani da me e da Mavie Parisi.

Franco Tambone, Mavì Carolina Parisi, Maria Rita Pennisi, Rocco Sapuppo, il bibliotecario che ringraziamo per la squisita accoglienza, io e Anna Maria Rizzo. — con Rocco Sapuppo e Anna Maria Rizzo presso Biblioteca comunale di Scordia, dopo una delle ultime presentazioni di NOI SIAMO DESDEMONA, il cui tour non si arresta, mentre invece vorremmo che si arrestasse l’escalation delle violenze di genere.

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Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

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Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici… e il racconto LORO.

 

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

I precedenti libri di Mavì Parisi…

 

 

 

Mavì Carolina Parisi oggi a Siracusa… e su La Civetta!

15 lunedì Feb 2016

Posted by mlriccioli in Eventi culturali, Letteratura

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25 novembre, Alessio Grillo, Algra Editore, Anna Maria Rizzo, antologia, Casa del Libro Rosario Mascali, Clara Pennisi, Dentro due valigie rosse, E sono creta che muta, femminicidio, Franco Tambone, I caratteri dell'alfabeto, Incontri in Biblioteca, Lei, Loro, Lui, Maria Lucia Riccioli, Maria Rita Pennisi, Mavì Carolina Parisi, Mavie Carolina Parisi, Mavie Parisi, Noi siamo Desdemona, Nunzio Lizzio, Orazio Caruso, Quando una donna, Rocco Sapuppo, Scordia, Simona Lo Iacono, Valverde, violenza di genere

Acquistate La Civetta di Minerva in edicola!

Venerdì 19 febbraio 2016… il nuovo numero!

A questo link trovate sul giornale on line alcuni dei miei articoli precedenti…

http://www.lacivettapress.it/it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=17&Itemid=143

Invece sul cartaceo stamattina troverete la mia intervista a Mavì Carolina Parisi in occasione della presentazione di stasera…

https://www.facebook.com/events/890473454407274/ (l’evento Facebook)

 

 

https://www.facebook.com/events/890473454407274/

Ecco il link all’evento Facebook…

Il 19 febbraio, venerdì, la Casa del Libro Rosario Mascali ospiterà la presentazione del nuovo libro di Mavie Carolina Parisi, I CARATTERI DELL’ALFABETO, Algra editore.

Simona Lo Iacono e Maria Lucia Riccioli presentano il libro di Mavie Carolina Parisi “I caratteri dell’alfabeto” con le illustrazioni di Alessio Grillo, Algra Editore.

Può l’intero inventario dei sentimenti umani, degli stati d’animo, dei tic, delle fobie o delle ossessioni essere compendiato nelle ventuno lettere dell’alfabeto? Certamente no, ma si può provare a darne una visione di insieme, seppure necessariamente incompleta. È questo che prova a fare l’autrice, osservando con occhio benevolo la sua serie di ventuno personaggi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, appunto. Uno sguardo acuto e ironico su quanto di reale, di grottesco o tenero, di drammatico o comico si nasconde tra le increspature delle vicende umane.

Mavie Carolina Parisi vive a Catania, dove insegna matematica e scienze. Della stessa autrice i romanzi E sono creta che muta (edizioni PerroneLab), Quando una donna (Giulio Perrone Editore), Dentro due valigie rosse (Giulio Perrone Editore). Nonostante abbia pubblicato molti racconti in varie antologie, è la prima volta che dà alle stampe una raccolta tutta sua.

Mavie Mavì Carolina Parisi legge LEI. 

Per i tipi di Algra Editore è uscita l’antologia NOI SIAMO DESDEMONA con vari racconti di diverse autrici contro il femminicidio.

All’interno del libro è presente il racconto LORO, scritto a quattro mani da me e da Mavie Parisi.

Franco Tambone, Mavì Carolina Parisi, Maria Rita Pennisi, Rocco Sapuppo, il bibliotecario che ringraziamo per la squisita accoglienza, io e Anna Maria Rizzo. — con Rocco Sapuppo e Anna Maria Rizzo presso Biblioteca comunale di Scordia, dopo una delle ultime presentazioni di NOI SIAMO DESDEMONA, il cui tour non si arresta, mentre invece vorremmo che si arrestasse l’escalation delle violenze di genere.

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Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

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Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici… e il racconto LORO.

 

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

 

 

 

 

NOI SIAMO DESDEMONA a Scordia, a Valverde e a Siracusa…

28 sabato Nov 2015

Posted by mlriccioli in Eventi culturali, Letteratura

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Tag

25 novembre, Algra Editore, Anna Maria Rizzo, antologia, Casa del Libro Rosario Mascali, Clara Pennisi, femminicidio, Franco Tambone, Incontri in Biblioteca, Lei, Loro, Lui, Maria Lucia Riccioli, Maria Rita Pennisi, Mavie Parisi, Noi siamo Desdemona, Nunzio Lizzio, Orazio Caruso, Rocco Sapuppo, Sarzana, Scordia, Valverde, violenza di genere

Passato il 25 novembre, dedicato alla memoria di tutte le donne vittime di violenza di genere. Ma non l’impegno contro i femminicidi e tutti gli abusi perpetrati contro le donne.

Giorno 25 NOI SIAMO DESDEMONA – l’antologia di Algra editore contro il femminicidio – è stata proposta a Scordia (CT).

Il sindaco di Scordia Franco Tambone e la curatrice del volume Maria Rita Pennisi… — presso Biblioteca comunale di Scordia.


Soffitto…
— presso Biblioteca comunale di Scordia.


Particolare…
— presso Biblioteca comunale di Scordia.


Mavie Mavì Carolina Parisi legge LEI.
 

Franco Tambone, Maria Rita Pennisi, Orazio Caruso e Mavì Carolina Parisi.

Orazio Caruso legge LUI. 


LUI.
 


Anna Maria Rizzo parla dell’attività del centro antiviolenza Oikia.

Maria Rita Pennisi legge un brano del suo racconto.


Lo stemma dei Branciforte.
— presso Biblioteca comunale di Scordia.

Franco Tambone, Mavì Carolina Parisi, Maria Rita Pennisi, Rocco Sapuppo, il bibliotecario che ringraziamo per la squisita accoglienza, io e Anna Maria Rizzo. — con Rocco Sapuppo e Anna Maria Rizzo presso Biblioteca comunale di Scordia.

Afffresco… e porta.

LA SICILIA, 25 NOVEMBRE 2015.

Il tour delle presentazioni non finisce…

Domenica 29 novembre NOI SIAMO DESDEMONA sarà ospitato all’interno della rassegna degli Incontri in Biblioteca a cura di Clara Pennisi e Nunzio Lizzio presso la Biblioteca Giuseppe Fava di Valverde (CT).

E infine… a Siracusa!

Il primo dicembre alle 17.30 ci sarà la presentazione del volume antologico “Noi siamo Desdemona”, raccolta di racconti di autrici varie contro la violenza sulle donne. Presenta e coordina la professoressa Maria Lucia Riccioli; saranno presenti alcune delle autrici.

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Immagine tratta dalla presentazione presso LA CASA DEL LIBRO Rosario Mascali.

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Ecco la copertina del volume con i nomi delle autrici…

L’evento è stato pubblicato da http://www.ortigia.it, che ringrazio.

 

L’antologia NOI SIAMO DESDEMONA (Algra Editore), il cui “tour” non si ferma – ah come vorremmo che si arrestasse insieme a ciò che condanna! – contiene un mio racconto scritto a quattro mani con Mavie Parisi.

Eccolo…

LORO

 

LEI

Lontana. Credevo di essere molto lontana, tanto lontana da cogliere in un’unica occhiata fatti, cause, natura dei sentimenti e fondamenti delle azioni.

Come una fotografa che tenti di abbracciare tutta la scena e inghiottirla dentro il suo obiettivo, faccio un passo indietro per indovinare anche il contesto.

Non mi accorgo che invece mi sto avvicinando, sono praticamente dentro, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Non vedo più nulla, tutto si sfoca nel mio perduto potere di risoluzione.

Niente che possa essere toccato da dita che non sento più.

Una confusione sensoriale, veli di vento sulla pelle nuda.

Una prospettiva strana, un punto di osservazione bizzarro, o quantomeno sconosciuto, che distorce tutto e dissolve i dettagli.

Sarà per questo che mi importa uno zero di tutto quello che è successo.

Abito al piano terra di un piccolo condominio, un appartamento di tre vani, regalo dei miei genitori per il mio ventiseiesimo compleanno.

Un regalo grosso, impegnativo, ma poca roba se si pensa che sono la loro unica figlia e per me darebbero la vita, come si dice.

Sul mio stesso pianerottolo c’è un appartamento gemello che, nel periodo in cui venni ad abitare il mio, era vuoto.

I due piccoli giardini sui quali si affacciano le cucine sono confinanti e ho dovuto piantare un lungo filare di bambù per nascondere il lerciume di un posto abbandonato da troppi anni.

Bella sorpresa, una domenica mattina, essere svegliata dal chiasso e dalle chiacchiere di due giardinieri che pulivano, rastrellavano, piantavano siepi, rendevano insomma abitabile quello che era stato solo un nido di topi.

Sia lodato il cielo, pensai, o meglio sia lodato l’amministratore che ha finalmente ascoltato le mie preghiere.

Esco dunque in giardino con il pigiama, le ciabatte, una tazza d’orzo in mano e una magnifica disposizione d’animo.

Buongiorno, mi dice, e non potevano essere i giardinieri, a meno che ce ne fosse un terzo che non riuscivo a vedere.

Risposi comunque al saluto mentre ricevevo la seconda sorpresa di quella singolare mattina: l’appartamento a fianco aveva finalmente un proprietario.

Si trattava di un uomo di una quarantina d’anni, forse (seppi in seguito che erano cinquanta ben portati).

Quel giorno, di lui mi colpì l’abbigliamento. Mi sarei aspettata una tenuta comoda, per un trasloco, invece notai che indossava la giacca e la cravatta, e dalla mia prospettiva, e con la siepe di bambù che ne nascondeva la parte inferiore, mi sembrò uno speaker di telegiornale.

La situazione era così surreale, con me in pigiama e i giardinieri, lui in giacca e cravatta e tutto il resto, che mi venne da ridere.

E così mi sentii in obbligo di spiegare il motivo di quella risata.

Rimediai un noioso racconto su un anniversario di matrimonio e sugli intricati legami di parentela che lo legavano agli sposi che oggi avrebbero rinnovato in chiesa le loro promesse.

In compenso guadagnai l’amicizia di un vicino di casa.

Da quel giorno e per tutte le domeniche d’estate ci sporgemmo dai rispettivi giardini per fare quattro chiacchiere.

Decidemmo anche di tagliare qualche piede di bambù, in modo da rendere più agevole la cosa.

Per il resto, ognuno faceva la sua vita.

Intanto l’estate stava per finire, e nessuno di noi si era chiesto, o quantomeno non me l’ero chiesto io, cosa avremmo fatto in caso di pioggia.

Non ebbi il tempo di pormi il problema, non mi ero nemmeno accorta che piovesse, quando sentii il campanello.

Era lui che mi invitava a prendere un caffè in casa sua.

Accettai con piacere e non solo quella volta, ma per molte volte ancora.

Nei giorni non lavorativi sapevo che a una certa ora del mattino avrei sentito un din don che mi annunciava che la colazione era pronta.

Ce ne stavamo nella sua cucina e passavamo la successiva oretta a chiacchierare mangiando il ben di Dio di cornetti e ciambelle che lui stesso preparava o acquistava in pasticceria.

Il caffè si trasformò presto in pranzo, qualche volta in cena.

Non si arrivò alla fine dell’inverno che qualcosa, nel suo atteggiamento, cambiò.

Non saprei raccontare fatti precisi.

Non fu compiuta alcuna azione dai contorni e obiettivi definiti, né articolata frase speciale.

Fu una sorta di aumento della confidenza, una trasformazione di quella piacevole complicità che ci eravamo costruiti.

Mentirei se dicessi di non aver considerato la possibilità che ciò accadesse, ma avevo allontanato il pensiero con un gesto leggero e vago, come si fa con un moscerino immaginario.

Provai un fastidio non intenso, ma molesto. Settimana dopo settimana, però, sentii nascere l’antipatia che crebbe in avversione.

Era di nuovo estate quando mi trovai a inventare una scusa ogni domenica, proprio mentre lui si faceva più pressante.

Cominciò a cercarmi a ogni ora del giorno, di ogni giorno.

Il suono del campanello ormai mi dava nausea, come un cibo mangiato in quantità eccessiva.

Facevo finta di non essere in casa, ma era inutile, perché, a quel punto, mi aspettava fuori dalla porta.

Mi era impossibile uscire in giardino perché lui faceva altrettanto, così mi industriai a stendere i panni dentro il bagno.

Scoprii che spiava le mie uscite. La mia vita si trasformò in un incubo.

Decisi di confidarmi con qualcuno, forse mi avrebbe tranquillizzata, riportandomi su una strada che io pensavo di avere smarrito.

Ne parlai con una cara amica, che sfortunatamente alimentò il fuoco delle mie paure consigliandomi di cambiare casa.

Era una cosa non facile che mi sembrava pure inutile, e poi cosa avrei detto ai miei genitori? Li avrei messi in allarme per qualcosa che assomigliava tanto a una sciocchezza.

Non rimaneva che affrontarlo. Gli avrei parlato chiaramente, con garbo certo, ma anche con determinazione.

Gli ultimi accadimenti non dovevano farmi dimenticare che si trattava pur sempre del mio simpatico vicino di casa, magari si era rivelato un po’ invadente ma ero sicura che sarebbe bastato farglielo notare.

Fu così che una domenica mattina, era appena trascorso l’anniversario della nostra conoscenza, accettai il suo ennesimo invito, telefonico stavolta.

Presi qualche minuto per vestirmi, infilai la chiave dentro la tasca dei jeans, e andai.

L’atmosfera mi imbarazzò da subito.

Mi guardava dritto negli occhi, con intenzione, pensai. Il suo sguardo percorse tutti i miei contorni come fosse la punta di una matita che dovesse ricalcarmi su un foglio.

Con pazienza, provai molte volte a imbastire le parole che mi ero portata dietro per dirgli che doveva smetterla, ma ogni volta che iniziavo a parlare lui mi faceva un complimento, mi offriva qualche cosa o provava a farmi una carezza.

La mia pazienza si esaurì quando infine mi trovai le sue mani addosso, a quel punto il discorso preparato rotolò velocemente e non ci fu più tempo per la delicatezza, ma più parlavo e più mi si avvinghiava.

Mi ritrovai stretta a lui, farfugliava qualcosa che aveva a che fare con il desiderio, ma le frasi non erano chiare, era più un mugolio appiccicoso.

Sentivo la sua saliva che diventava fredda sulla mia pelle, niente mi aveva mai fatto tanto schifo.

Con tutta la forza che potei racimolare, tentai di scostarlo.

Non c’era gioco, il suo metro e ottanta abbondante e le sue braccia forti avevano la meglio.

Fu quando mi sbottonò la camicetta che presi a lottare come una dannata tempestandolo di pugni.

Dapprima rise, tenendomi le mani.

Sembrava un gioco, ma poi mi picchiò forte, fortissimo.

Caddi a terra ma lui non si fermava, anzi mi prese il viso con una sola mano, era così grande che quasi soffocavo, sicuramente non vedevo bene, un dito mi premeva sull’occhio sinistro. Cominciò a sbattermi la testa sui mattoni.

Questi sono i fatti, per il resto sono solo sensazioni e ricordi di vaghe emozioni.

Il dolore al capo, il calore del sangue sulla mano, il suo colore sfocato, la mancanza di respiro, il girotondo della stanza, lo sfregare della schiena sul pavimento mentre mi riporta a casa mezza morta, il rumore della porta chiusa alle sue spalle, la perdita di contatti con il mondo, la paura che l’avrebbe fatta franca, un accenno di rabbia l’immagine dello strazio negli occhi di mia madre.

Eppure adesso tutto questo mi è proprio indifferente, in questo luogo sorprendente, durante un tempo che non so, in uno spazio che non è uno spazio, granello di polvere tra un pixel e l’altro.

Sono morta. Ammazzata.

 

LUI

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Voglio dire, è una cosa che non prevedi. Neanche negli incubi più brutti, che ti svegli sudato e ringrazi chissacchì perché non è vero.

Stavolta invece sono sudato lo stesso ma l’incubo non finisce.

È incominciato e non finirà.

Questo solo, riesco a pensare.

C’era una vita prima di questo sangue, prima di questo schifo che a quanto pare ho fatto io, di questo lamento che sta per finire – ma quando, quando? – e questa vita è finita. Quella di questa ragazza che non mi pare più manco la mia vicina. Una bambola rotta mi pare, e l’ho rotta io.

Ma anche io mi sento rotto. Sono stanco, stanco morto, come quando corro troppo alla pista ciclabile per sembrare più giovane, per piacere di più a questa bambola rotta che non mi vuole. Che non mi può volere più.

Sono morto pure io, allora.

Il lamento manco si sente più. Quasi.

Sarò l’assassino, il mostro. L’ammazzatore di donne, lo stalker che prima fa amicizia con una donna e poi va a finire così, una domenica che poteva essere diversa e no, ora è questo bordello di camicetta sbottonata e sangue, di occhi spalancati che mi guardano e non mi vedono. Non mi vedono più.

Quando alla televisione sentivo di donne ammazzate cambiavo canale. Pure ’sta parola nuova, “femminicidio”, mi faceva antipatia.

Uno pensa Che c’entro io con queste cose, m’avete pure rotto, con le scarpe rosse i posti vuoti a teatro e dagli al maschio maniaco assassino.

E invece sono qua, col telefono in mano, il numero già composto.

Uno. Uno. Tre. 113.

Il simbolo verde con la cornetta da premere.

E il sangue rosso di lei sui polpastrelli, sul dorso delle mani, sulla maglietta. E LEI qui, e la striscia rossa che va da casa mia alla sua.

Frugare nelle tasche dei suoi jeans – le cosce ancora calde –, prendere le chiavi, aprire, trascinarla nel suo appartamento.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Eppure quello con il telefono e il sangue di lei addosso sono io.

Mi punteranno a dito, mi accuseranno. Era la sua vicina, capita, no? Male, male ha fatto, s’è fidata dell’uomo sbagliato, quello della porta accanto, che t’aggiusta la serranda e poi si mette in testa chissà che cosa.

La mia vicina.

Ama il prossimo tuo. Io non so se l’amavo, però mi ha fatto sangue subito – fa senso pensarlo adesso. Mi è piaciuta, mi è piaciuta subito – con le sue camicette aderenti, la voce fresca come l’erba del giardino appena tagliata.

Che male c’è? Si comincia così, no?

Una presentazione un po’ imbarazzata ma cordiale, quattro chiacchiere in giardino con la mente alla pentola sul fuoco, al computer acceso e la voglia di restare lì.

Il caffè. Il primo, che ha un sapore tutto particolare.

Una fetta di ciambella.

Un pranzo, una cena, quel dire e non dire di cui sono così esperte le donne.

Pensavo non dico di piacerle, ma almeno una simpatia un interesse qualcosa… non avevo capito niente. Non ho capito niente.

Mi hai frainteso, mi ha detto, Non avevo capito che tu avessi altre intenzioni.

Rabbia, umiliazione… tutte quelle belle parole in giardino e davanti a un piatto di pasta o un caffè sono state solo chiacchiere inutili tra buoni vicini?

Vicini.

Le facevo la posta, è vero.

Non si fa, non si dovrebbe fare. Le donne si mettono in sospetto e ti chiudono la porta in faccia, si negano, non si fanno trovare a casa o fanno finta. Non si fa.

Ma mi mancava la sua voce. E la sua biancheria – le calze, le mutandine che adesso stendeva in casa, perché forse per lei il fatto che io le vedessi era prendermi… com’è che aveva detto? troppa confidenza.

E non sta bene, prima il caffè colazione pranzo cena e poi niente. Troppa confidenza non va bene.

Non sono bravo a capire cosa vogliono veramente le donne. Sfido qualcuno a capirle. Sì no no sì non lo so non credo. Le parole le usano come il trucco, ogni frase è uno sbaffo di rossetto, una passata di cipria. E non sai più se stai parlando con una donna o con una bambola che ti risponde come viene. Come viene.

Credevo di essere lontano, molto lontano da cose come queste.

Sbottonarle la camicetta. Ridere dei suoi tentativi di sfuggire alle mie carezze. Picchiarla perché urlava il suo disprezzo verso quello che provavo – che provo? Ancora?

Non si lamenta più. Il telefono mi scotta fra le dita, sono così stanco che premere il tasto verde mi sembra un’impresa. Farei di tutto per te, di tutto. E tu ridevi. E ora non si muove più, ora che lo sa che ho fatto molto più di tutto.

Sono confuso, niente ha più senso. la stanza i jeans il sangue. Sono in un film che non capisco. Tutto mi pare sfuocato. Sono qui ma mi sento da un’altra parte.

Mi sento così lontano da cose come queste.

Sono ancora qui.

LEI è ancora qui. La mia vicina. Vicinissima. E già così lontana.

 

LEI, Mavie Parisi

LUI, Maria Lucia Riccioli

Ringraziamo per la disponibilità librerie, associazioni, centri culturali, biblioteche…

Le altre autrici: Maria Attanasio, Angela Bonanno, Marinella Fiume, Lia Levi, Simona Lo Iacono, Anna Pavone, Maria Rita Pennisi – curatrice del volume e della collana FIORI BLU di Algra nella quale è inserito il volume ed anche il mio libro di cunti in dialetto siciliano QUANNU ‘U SIGNURI PASSAVA P’ ‘O MUNNU -, Tea Ranno, Maria Grazia Sclafani, Elvira Seminara.

DSC05321 (l’articolo uscito su LA CIVETTA DI MINERVA in occasione del convegno siracusano dedicato alla tematica del femminicidio)

NOI SIAMO DESDEMONA - Acicastello (l’articolo sulla presentazione di Aci Castello)

https://www.youtube.com/watch?v=o_QI4xDh1M0 Il booktrailer

https://www.youtube.com/watch?v=IAqmldU7VvY Il convegno FILDIS sul femminicidio (Siracusa, 3 maggio 2014)

I recenti fatti di cronaca mostrano che i femminicidi anziché diminuire continuano a dilagare.
Il nostro libro è una goccia nel mare ma la consapevolezza di un fenomeno è il presupposto per poter eventualmente fare qualcosa per prevenirlo e curare le ferite che esso provoca.

Ho voluto postare questa foto per testimoniare l’impegno di tante amministrazioni per la sensibilizzazione su questo tema.

 

 

 

 

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